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Il rapporto dei filosofi analitici con la metafisica è stato per lungo tempo difficilee conflittuale.
In un certo senso, il movimento analitico venne inizialmente caratterizzandosi proprio in contrapposizione alla tradizione filosofica dominante dell’Ottocento, tutta assorta nell’impresa di rispondere a Kant attraverso rielaborazioni più o meno dogmatiche dell’idealismo critico.
In una Cambridge in cui Bradley e McTaggart dominavano incontrastati, Moore non esitava ad accusare di miopia le teorie metafisiche «che pretendono di fornire un’agevole strada per superare le difficoltà che ostacolano il cammino dell’indagine accurata.
»1. Russell
scriveva che i grandi problemi della metafisica nascevano per la
maggior parte da
confusioni e fraintendimenti legati alla «cattiva grammatica»
2. ovvero a un uso
improprio del linguaggio e alla sua interpretazione affrettata e superficiale.
E di lì a poco
Carnap sarebbe giunto a dichiarare che «le presunte
proposizioni della
metafisica si rivelano, all’analisi logica, pseudoproposizioni
».3 Più che un
vero e proprio rifiuto della metafisica, tuttavia, queste manifestazioni
critiche
costituivano un attacco a un certo modo di fare metafisica,
troppo spesso
improntato all’abuso di paroloni («l’ente», «l’assoluto»,
«l’idea») e
costrutti oscuri («il nulla nulleggia») piuttosto che alla chiarezza e al
rigore
argomentativo. Soprattutto rispetto ad altri campi di indagine filosofica,
gli studi di
metafisica dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento erano molto
distanti dagli
standard di accuratezza che la svolta analitica andava imponendo
ed era naturale
che si finisse col mettere sotto accusa l’intera disciplina. Tut-
1 Moore, 1898, p.
186.
2 Russell,
1918-19, p. 229, tr. it.
3 Carnap, 1932, p.
505 tr. it.
2
tavia questo stato
di cose non corrispondeva necessariamente a un divorzio di
interessi. E dopo
una prima fase dedicata soprattutto alla disinfezione e alla
delimitazione del
territorio si può dire che la filosofia analitica non abbia trascurato
di confrontarsi
(muovendo da una chiara formulazione delle domande prima
ancora che dalla
ricerca delle risposte) con tutta una serie di questioni che
rientrano a pieno
titolo nel campo d’indagine della metafisica.
In questo capitolo
ci soffermeremo soprattutto su due ordini di questioni,
sui quali la
riflessione dei filosofi analitici è stata particolarmente approfondita:
l’identità degli
oggetti materiali (intesi come oggetti del «senso comune») e il
problema degli
universali. Non è ovviamente una lista esaustiva e forse nemmeno
un campione
rappresentativo, ma si tratta di due temi che consentono di evidenziare
aspetti
metodologici e linee di tendenza che caratterizzano l’approccio
analitico alla
metafisica nel suo complesso. (Per un quadro più esaustivo
rinviamo alla
sezione bibliografica al termine del capitolo.) Alla rassegna critica
su questi due temi
faremo inoltre precedere qualche considerazione concernente
un terzo tema, di
ordine più generale e in certa misura preliminare: la questione
ontologica. Se
infatti la metafisica—secondo una definizione diffusa alla quale ci
atterremo—si
occupa fondamentalmente della natura ultima di tutto ciò che esiste,
attiene alla
metafisica anche il compito preliminare di stabilire che cosa esiste,
o quantomeno di
fissare dei criteri per stabilire che cosa sia ragionevole includere
in un accurato
inventario del mondo. La messa a punto di tali criteri definisce,
appunto, la
questione ontologica, e tra i meriti della filosofia analitica vi
è senz’altro
quello di avere contribuito a chiarirne coordinate, sfaccettature, e
ramificazioni (e
di averne generalmente tenuto presente anche nel contesto di
indagini attinenti
ai temi più propriamente metafisici come quelli, appunto,
della natura degli
oggetti e delle proprietà).
II - Esistenza e
forma logica
L’approccio
analitico all’ontologia nasce dalla constatazione che la domanda
«Che cosa esiste?»
presenta un’ambiguità di fondo. In un certo senso, come
scriveva Quine nel
1948, si tratta di una domanda semplice cui si può rispondere
con una sola
parola: «Tutto».4 Esiste tutto in quanto non può esservi nulla
che non esiste,
altrimenti si cadrebbe in quel groviglio di essere e non-essere (la
«barba di
Platone») che ha tormentato la storia della filosofia occidentale (e
4 Quine, 1948, p.
3 tr. it
3
sulla quale anche
il «rasoio di Occam» si è ripetutamente spuntato). In questo
primo senso,
quindi, la questione ontologica non può che trovare tutti
d’accordo e non ha
alcuna pertinenza con la metafisica. Dire che qualcosa non
esiste è
semplicemente una «contraddizione in termini».5 Vi è però anche un
senso in cui la
domanda «Che cosa esiste?» ammette risposte diverse. Esiste
tutto ma non,
naturalmente, le chimere o i fantasmi, e per Quine non esistevano
nemmeno le
proprietà, gli individui possibili, o altre entità causalmente inerti
come i significati
e le proposizioni, che filosofi di diverso orientamento sarebbero
invece inclini a
includere nel proprio inventario ontologico. Quando Quine
diceva «tutto»
intendeva riferirsi né più né meno che al contenuto materiale
dello
spazio-tempo6—una e una sola entità per ogni distinta regione spaziotemporale—
al più con
l’aggiunta di quelle entità astratte che sono l’essenza
della matematica
su cui si reggono le scienze fisiche7. Per altri filosofi il quantificatore
«tutto» si
riferisce ad altro, e il loro inventario sarà di conseguenza diverso
da quello di
Quine. In questo senso, quindi, la questione ontologica è
tutt’altro che
banale e nessuno si aspetta di trovare una risposta universalmente
accettabile. Per
ognuno di noi esiste tutto ciò su cui siamo disposti a quantificare;
ma possiamo essere
disposti a quantificare su cose diverse.
1. Il requisito
della trasparenza ontologica
Anche in questo
secondo senso, tuttavia, non è detto che la controversia sia
autentica o
irriducibile, così come non è detto che le intese siano sempre reali.
Ed è proprio su
questo punto che la questione ontologica ha attirato l’attenzione
dei filosofi
analitici sin dagli inizi. Le accuse di «confusioni e fraintendimenti
» che Russell
lanciava alla metafisica tradizionale costituivano evidentemente
anche un invito a
non commettere lo stesso errore, e in particolar modo a
non cadere nei
mille trabocchetti che si annidano nelle nostre pratiche linguistiche.
Quando diciamo che
il cavallo alato non esiste, intendiamo forse parlare di
un individuo che
non esiste? Quando diciamo che Giovanni ha dato uno schiaffo
a Maria intendiamo
davvero chiamare in causa un’entità—uno schiaffo—che
Giovanni avrebbe
dato a Maria? Quando Alice afferma di non aver visto nessuno
sulla strada,
intende davvero parlare di un’entità chiamata “nessuno”? È evidente
che non ci sono
risposte immediate a queste domande (nemmeno nel ter-
5 Quine, 1940, p.
150.
6 Vedi per es.
Quine, 1960, p. 212 tr. it
7 Cf. Quine, 1951,
p. 43 tr. it.
4
zo caso, come
insegna la disavventura di Polifemo). L’unico modo per esprimere
le nostre
convinzioni ontologiche è di formulare asserti che riteniamo veri;
tuttavia il
linguaggio di cui ci serviamo per formulare questi asserti presenta
ambiguità e
imprecisioni che rendono difficile instaurare un nesso immediato tra
le parole che
usiamo e le entità a cui esse fanno riferimento (quelle entità dalla
cui esistenza
dipende la verità dei nostri asserti). Sarebbe del resto sorprendente
se le cose
stessero altrimenti. Quindi, se da un lato l’esame delle nostre pratiche
linguistiche
veniva visto dai primi filosofi analitici come il necessario punto
di partenza per
ogni indagine filosofica, inclusa la questione ontologica («la
strada migliore,
anzi, l’unica sicura», ha scritto Strawson8), dall’altro lato non
mancava l’enfasi
sulla necessità di fare attenzione a non farsi sviare dai difetti
della grammatica.
Il linguaggio ordinario «non è in ordine così com’è» per il metafisico
proprio come non
lo è per il logico o per il filosofo della matematica, e
non è escluso che
in certi casi la controversia ontologica nasca proprio
dall’inavvertenza
linguistica.
L’esempio più
classico di questo modo di affrontare le cose risale agli albori
del movimento
analitico ed è costituito dall’analisi russelliana delle asserzioni
esistenziali
contenenti descrizioni definite, come
(1) Il cavallo
alato non esiste,
che sembrano
portare dritte dritte alla barba di Platone.9 L’asserto (1) è vero.
Ma che cosa lo
rende tale? Affinché un asserto elementare della forma soggettopredicato
sia vero è
necessario (e sufficiente) che l’entità denominata dal termine
in posizione di
soggetto soddisfi la condizione espressa dal termine in posizione
di predicato.
Tuttavia in questo caso non vi è nulla che corrisponda al
termine in
posizione di soggetto. Anzi, è proprio l’assenza di un’entità del genere
che si vuole
affermare. Ebbene, la risposta di Russell consiste proprio
nell’escludere che
la (1) abbia la forma di un asserto elementare (o che sia la negazione
di un asserto del
genere). Il fatto stesso che abbia senso chiedersi se
esiste il cavallo
alato costituisce per Russell un motivo sufficiente per ritenere
che ‘il cavallo
alato’ non sia un autentico termine singolare (e non possa quindi
occupare la
posizione di soggetto). Si tratta piuttosto di un «simbolo incompleto
» che non ha
significato autonomo e che scompare a una più attenta analisi
della struttura
logica dei contesti linguistici in cui compare. Nella fattispecie,
un’asserzione come
(1) viene analizzata come equivalente a
8 Strawson, 1959,
p. 9 tr. it.
9 Il testo
principale è Russell, 1905.
5
(1a) Non si dà il
caso che esista uno e un solo cavallo alato,
ovvero come
negazione della congiunzione delle due asserzioni seguenti:
(2) Esiste almeno
un cavallo alato.
(3) Esiste al più
un cavallo alato.
L’analisi
semantica di questi due congiunti non presenta problemi di sorta. E
siccome uno di
loro risulta falso non vi è alcuna difficoltà nel negare la congiunzione.
Detta
diversamente, per Russell la (1) non è altro che una comoda abbreviazione
per un’asserzione,
la (1a), strutturalmente più complessa ma ontologicamente
più trasparente, e
chi non apprezza questo fatto corre il rischio di
prendere un serio
abbaglio.10
Questa stessa
analisi si applica, evidentemente, a ogni asserzione la cui
forma grammaticale
segue lo schema
(4) Il tal dei
tali è così e cosà.
Non solo: si
applica anche nei casi in cui il descrittore ‘il tal dei tali’ è sostituito
da parole che
comunemente usiamo alla stregua di nomi propri, come ‘Pegaso’
o ‘Giovanni’.
Proprio in quanto ha senso chiedersi se Pegaso o Giovanni esistano,
per Russell le
parole in questione non sono dei nomi veri e propri bensì
delle descrizioni
camuffate. Per esempio, ‘Pegaso’ potrebbe essere visto come
un’abbreviazione
di ‘il cavallo alato’, e quindi un’asserzione come
(5) Pegaso non
esiste
potrebbe essere identificata
con (1) e trattata allo stesso modo. In certi casi
può essere
difficile individuare la descrizione che si nasconde dietro un nome
apparente, ma
questo è un problema pratico e non affligge la portata teorica
dell’analisi di
Russell. Inoltre esiste sempre la possibilità—evidenziata qualche
anno più tardi
proprio da Quine—di eliminare tutti i nomi in maniera sistematica,
utilizzando
descrizioni definite in cui il predicato descrittivo è costruito
direttamente a
partire dai «nomi» stessi. ‘Pegaso’ potrebbe corrispondere
alla descrizione
‘quell’unica cosa chiamata: P-e-g-a-s-o’, o più semplicemente
‘quell’unica cosa
che pegasizza’, sicché la (5) equivarrebbe in ultima analisi a
(5a) Nulla
pegasizza.
10 Naturalmente
quest’analisi ha i suoi critici. Per esempio Strawson, 1950, ha obiettato
che un enunciato
elementare non asserisce l’esistenza e l’unicità di un’entità corrispondente al
termine in
posizione di soggetto: lo presuppone.
6
In tal modo ogni
nome apparente verrebbe eliminato a favore di locuzioni predicative
e la «barba di
Platone» si dissolverebbe del tutto: se da un lato non ha
senso usare un
nome che non si riferisce a nulla, dall’altro lato non vi è problema
alcuno nell’uso di
un predicato che non è vero di nulla, ovvero un predicato
la cui estensione
è data dall’insieme vuoto. Ne segue che per Russell e Quine gli
unici termini
singolari veri e propri sono i pronomi, come ‘questo’ o ‘quello’,
ovvero quelle
espressioni che nella notazione della logica del primo ordine corrispondono
alle variabili
individuali. Non ha infatti senso chiedere «Esiste questo?
» così come nella
logica del primo ordine non ha senso chiedere se esiste il
valore di una
variabile. Per Russell questa conclusione si salda direttamente a
una tesi
metafisica ben precisa, secondo la quale le uniche cose che esistono sono
quelle di cui si
ha esperienza diretta (le descrizioni consentirebbero invece di
chiamare in causa
entità di ogni sorta, inclusi oggetti impossibili come il circolo
quadrato o la
radice quadrata di –2).11 Per Quine, più semplicemente, si tratta
di una conclusione
che non fa che riflettere il criterio ontologico di partenza:
esiste tutto, ovvero
tutto ciò che cade nel campo di azione di un quantificatore,
ovvero tutto ciò
che può costituire il valore di una variabile individuale. «Essere
non è altro che
essere il valore di una variabile».12
Ora, l’analisi di
Russell e Quine si applicava solo a certi aspetti del linguaggio
ordinario,
consentendo a chi la accettasse di affrontare soltanto alcuni
dei trabocchetti
ontologici che lì si nascondono. Ma si tratta solo di un esempio.
Dal punto di vista
che qui ci interessa l’aspetto essenziale di questo modo
di procedere è il
ricorso all’analisi logica e alla conseguente parafrasi in forma
canonica,
apparentemente prosaica e poco idiomatica ma del tutto trasparente
(o
«intrinsecamente non fuorviante», nelle parole di Ryle13) sul piano ontologico.
Proprio questo è
il tratto distintivo dell’approccio analitico all’ontologia; e
nei cento anni
successivi alla pubblicazione di ‘On Denoting’, che Ramsey non
esitava a chiamare
un «paradigma della filosofia»14, la strategia della parafrasi
ha costituito lo
strumento principale con cui la questione ontologica è stata affrontata
in tanti altri
casi. Per esempio, ci si chiedeva sopra se l’asserzione
(6) Giovanni ha
dato uno schiaffo a Maria
debba rinviare
all’esistenza di un’entità corrispondente alla descrizione indefini-
11 Vedi Russell,
1910.
12 Quine, 1939, p.
708.
13 Ryle, 1931.
14 Ramsey, 1931,
p. 279 tr. it, n.12 (da un testo inedito del 1929).
7
ta ‘uno schiaffo’.
Evidentemente la risposta è affermativa se interpretiamo (6)
come un’asserto
esistenziale:
(6a) Tra le cose
che Giovanni ha dato a Maria vi è (anche) uno schiaffo.
Questa
interpretazione stabilirebbe un’analogia profonda tra (6) e un enunciato
come
(7) Giovanni ha
dato un libro a Maria.
in cui il
riferimento al libro è indiscutibile. Le cose però cambiano se riformuliamo
(6) come
un’asserto relazionale in cui si dice come Giovanni si è comportato
nei confronti di
Maria, senza chiamare in causa altre entità di sorta:
(6b) Giovanni ha
schiaffeggiato Maria.
In tal caso
l’espressione l’analogia tra (6) e (7) sarebbe solo apparente.
L’espressione ‘ha
dato uno schiaffo’ sarebbe semplicemente una variante di ‘ha
schiaffeggiato’
(mentre non esiste una variante simile per ‘ha dato un libro’); e il
fatto che in
italiano si possa usare la prima espressione al posto della seconda—
si potrebbe
sostenere—è un accidente linguistico che non deve trarre in
inganno sul piano
ontologico.
Ecco qualche altro
esempio, scelto un po’ a caso dalla letteratura, in cui asserzioni
che sembrano fare
riferimento a «entità sospette» (rispettivamente: le
differenze d’età,
i buchi, i tavoli, le probabilità, i dati sensoriali, le virtù, le stelle
medie) vengono
opportunamente parafrasate in maniera da evitare il riferimento15:
(8) C’è una
differenza d’altezza tra Giovanni e Maria.
(8a) Giovanni e
Maria non sono alti uguali.
(9) C’è un buco in
quel pezzo di formaggio.
(9a) Quel pezzo di
formaggio è bucato.
(10) In soggiorno
c’è un tavolo.
(10a) In soggiorno
vi sono delle particelle disposte-a-tavolo.
(11) Vi sono buone
probabilità che Maria venga a cena.
(11a) È molto
probabile che Maria venga a cena.
15 Gli esempi si
ispirano, nell’ordine, a: White, 1956, pp. 68–69; Lewis e Lewis, 1970,
p. 4; Van Inwagen,
1990, p. 109; Burgess e Rosen, 1997, pp. 222–233; Ducasse, 1942, p.
233; Alston, 1958,
p. 9; Melia, 1995, p. 224.
8
(12) Maria ha
l’impressione di vedere una chimera.
(12a) Maria vede
chimericamente.
(13) Vi sono molte
virtù che Giovanni non ha.
(13a) Giovanni
potrebbe essere molto più virtuoso di quanto non sia.
(14) La stella
media ha 2.4 pianeti.
(14a) Ci sono 12
pianeti e 5 stelle, oppure 24 pianeti e 10 stelle, oppure...
Naturalmente vi
sono anche casi in cui l’analisi va nella direzione opposta, risolvendosi
nell’introduzione
piuttosto che nell’eliminazione di certe entità. È il
caso di (6a), che
potrebbe essere considerato una parafrasi non solo di (6) ma
anche di (6b).
(Negli anni Sessanta Donald Davidson ha fornito diversi argomenti
a favore di
quest’analisi alternativa, secondo cui la forma logica degli enunciati
d’azione include
una quantificazione sulle azioni stesse oltre che sugli
agenti.16) La
direzione dell’analisi non è determinante dal punto di vista del metodo,
così come non è
determinante l’inelegante eccentricità di certe parafrasi.
Ciò che conta è la
loro perspicuità, ovvero che esse consentano di stabilire un
nesso chiaro tra
le parole che usiamo e le cose di cui parliamo. L’eleganza, dice
qualcuno, possiamo
lasciarla ai sarti e ai calzolai.
2. Problemi e
distinzioni
Pur senza entrare
nei dettagli, è bene a questo punto sottolineare che questo
approccio alla
questione ontologica (e di conseguenza all’analisi metafisica) non
ha mancato di
sollevare obiezioni anche profonde. Storicamente, la prima obiezione
risale proprio ai
tempi di Russell ed è anche la più importante: ammesso
che la forma
grammaticale di un enunciato possa essere fuorviante, quali sono i
criteri per
decidere quando le cose stanno veramente così? E quali sono i canoni
rispetto a cui
valutare l’adeguatezza di una parafrasi? La teoria russelliana delle
descrizioni era
guidata dal desiderio di evitare qualunque riferimento a entità che
non fossero
conoscibili per esperienza diretta, e in questo senso erano le convinzioni
ontologiche di
Russell a guidarlo nella ricerca della forma logica, non già
viceversa. Questo
significa però che un filosofo di diverse vedute potrebbe attribuire
agli enunciati in
questione una forma logica diversa, o ritenere di non
dover affatto intervenire
sulla loro forma grammaticale. E infatti un filosofo
come Meinong (per
esempio) non aveva difficoltà ad accettare come buona la
16 Vedi i saggi
raccolti in Davidson, 1980. Per ulteriori sviluppi vedi Parsons, 1990.
9
forma grammaticale
di un enunciato come (1), perché per Meinong ‘il cavallo
alato’ (al pari di
ogni altra espressione descrittiva, incluse descrizioni contraddittorie
come ‘il circolo
quadrato’) designava un individuo di tutto rispetto, ancorché
non un individuo
in carne ed ossa.17 Lo stesso discorso si applica in linea
di principio a
tutti gli enunciati della lista (6)–(14). In breve, sia la scelta di
quali enunciati
parafrasare sia la scelta di come parafrasarli è effettuabile solo a
fronte di
specifici orientamenti filosofici. E se le cose stanno così allora la strategia
della parafrasi
appare sospetta: il rasoio di Occam non sa più che cosa radere
e anziché liberare
il linguaggio ordinario dai suoi trabocchetti ontologici si
corre il rischio
di imporgli l’ontologia che uno preferisce.18
In tempi più
recenti quest’obiezione ha dato luogo a un interessante dibattito
che ha trovato
espressione in tre importanti distinzioni. La prima è la distinzione
tra una concezione
«ermeneutica» e una concezione «rivoluzionaria»
delle parafrasi,
distinzione che si può far risalire allo stesso Quine.19 Nel primo
caso la parafrasi
di un enunciato ordinario mira a esibirne quella che i linguisti di
tradizione
chomskyana chiamano la «struttura profonda»20: al di là delle apparenze
(e al di là di
quanto possano pensare gli stessi parlanti), il vero significato
di un’asserzione
del linguaggio ordinario è quello che traspare dalla sua parafrasi
canonica. Nella
concezione rivoluzionaria, per contro, la parafrasi non restituisce
affatto il
significato che si nasconde dietro la forma grammaticale (la «struttura
superficiale»)
dell’asserzione; non è nemmeno chiaro se l’asserzione abbia
di per sé un
significato. Piuttosto, la parafrasi definisce il significato dell’asserzione,
ovvero ne fissa la
struttura logica e di conseguenza la portata ontologica.
Ma lungi dal voler
reinterpretare il linguaggio ordinario e imporgli surrettiziamente
un’ontologia, la
parafrasi mira a correggere il linguaggio e a dotarlo di una
ontologia
esplicita. In altre parole, mentre nella concezione ermeneutica la parafrasi
di un’asserzione A
rivela il vero significato di A, nella concezione rivolu-
17 Vedi Meinong,
1904. Per un filosofo di queste vedute la domanda «Che cosa esiste?»
presenta quindi
un’ulteriore ambiguità, a seconda di cosa si intenda per ‘esiste’: in un senso
stretto il cavallo
alato non esiste ma in un senso lato esiste anche lui (Meinong direbbe che
«sussiste»). Se la
questione ontologica viene intesa in questo secondo senso, allora non vi
sarebbe nulla di
contraddittorio nel dire che esiste [in senso lato] qualcosa che non esiste [in
senso stretto].
Per un’elaborazione di questa posizione vedi per es. Parsons, 1980, e Routley,
1980.
18 L’epiteto
‘sospetta’ è usato a questo proposito da Kripke 1982, p. 56 tr. it., e la
battuta
sul rasoio viene
da Putnam, 1987, p. 74. Per una formulazione articolata di questa obiezione
vedi Marconi,
1979. Sulle sue ramificazioni rimando a Varzi, 2001, cap. 2.
19 Vedi Quine,
1960, §33. La terminologia però si deve a Burgess e Rosen, 1997.
20 Il testo di
riferimento è Chomsky, 1957.
10
zionaria la
parafrasi rivela solo il significato che si intende attribuire ad A. E se
la prima
concezione sembra esporre il fianco all’obiezione citata sopra, la concezione
rivoluzionaria
sembra del tutto legittima, se non addirittura necessaria.
La seconda
distinzione degna di nota, introdotta da Strawson negli anni
Cinquanta e
tuttora ampiamente accreditata, è quella tra concezione «descrittiva
» e concezione
«revisionista» (o «correttiva») della metafisica, e quindi della
questione
ontologica21. Nella prima concezione l’ontologia si accontenta di descrivere
«la struttura del
nostro pensiero sul mondo», indipendentemente dalla
sua adeguatezza.
(Dummett dirà che la filosofia non può fare di meglio che aiutarci
ad avere
padronanza dei concetti di cui ci serviamo per pensare il mondo,
e quindi del modo
in cui ci rappresentiamo il mondo; e siccome il linguaggio avrebbe
priorità sul
pensiero, i fondamenti e il campo d’azione della metafisica
sarebbero definiti
interamente dalla teoria del significato.22) Nella concezione
revisionista, invece,
l’analisi ontologica dovrebbe produrre «una struttura migliore
»,
indipendentemente dalle rappresentazioni che possiamo darne nel nostro
pensiero e nel
linguaggio che usiamo per esprimerci. Ora, per Strawson il
valore della
metafisica descrittiva risiedeva nella sua modestia: una modestia di
origine kantiana,
che si accontenta di studiare il mondo attraverso un’analisi
del nostro
apparato concettuale. Tuttavia proprio questa modestia può a ben
vedere rivelarsi
un’arma a doppio taglio nel momento in cui la descrizione riguarda
non già il
pensiero o l’idioletto del singolo filosofo bensì l’apparato concettuale
o il linguaggio di
un’intera comunità: la modestia diventa allora presunzione
ermeneutica e si
finisce col ritrovarsi nella posizione discussa sopra. La
concezione
revisionista della metafisica, per contro, è immodesta ma onesta.
Non mira a
rivelare alcunché; mira semmai a correggere l’immagine del mondo
che troviamo
codificata nel nostro apparato linguistico-concettuale, e come
tale si sposa
naturalmente con la concezione rivoluzionaria del metodo analitico.
La terza e ultima
distinzione è quella tra una concezione «assoluta» e una
concezione
«relativa» dell’ontologia. Di nuovo, l’autore che ha dato l’impulso
iniziale alla riflessione
su questi temi è Quine, che a cavallo tra gli anni Cinquanta
e Sessanta ha
messo a punto una serie di importanti tesi di filosofia del linguaggio
che si traducono
nella cosiddetta «imperscrutabilità» del riferimento.
Secondo queste
tesi non ha senso chiedersi quale sia il riferimento di un’espressione
linguistica se non
relativamente a un sistema di coordinate (il che a sua
21 Vedi
soprattutto Strawson, 1959, e la discussione in Haack, 1979.
22 Vedi Dummett,
1991.
11
volta può essere
solo chiarito rinviando a un altro sistema di coordinate: «‘Tavolo’
si riferisce ai
tavoli», «Ma in che senso di ‘tavoli’?», e così via)23. E se le
cose stanno così,
allora non ha neanche senso chiedersi quale sia in termini assoluti
l’impegno
ontologico di una determinata asserzione o di una determinata
teoria. Ha solo
senso chiederselo relativamente a un opportuno sistema di coordinate.
Di conseguenza,
anche la ricerca della forma logica è da intendersi in
senso relativo.
Un’enunciato come
(15) Questo è un
tavolo
può necessitare di
una parafrasi che ne riveli la portata ontologica in termini di
particelle
subatomiche (per esempio) piuttosto che di artefatti macroscopici:
(15a) Questo è un
aggregato di particelle disposte-a-tavolo.
Ma può anche non
richiedere alcuna parafrasi se nella lingua del parlante ‘tavolo’
significa
aggregato di particelle disposte-a-tavolo. E siccome non c’è modo
di stabilirlo una
volta per tutte, vi è un senso molto importante in cui la
stessa questione
ontologica ha senso soltanto relativamente a una teoria di
sfondo e a un
opportuno «manuale di traduzione». Naturalmente possiamo
sempre dire che
nella nostra lingua ‘tavolo’ si riferisce ai tavoli, qualunque cosa
essi siano.24 Ma a
questo punto resta da stabilire che si parli effettivamente la
stessa lingua, e
quindi la relatività non scompare.
L’enfasi sulla
dimensione relativa della questione ontologica si ritrova in
molti altri
filosofi che a partire dagli anni sessanta hanno fortemente influenzato
il dibattito su
questi temi, da Nelson Goodman (non ha senso chiedersi che cosa
esista
indipendentemente dal nostro modo di «vedere e costruire» il mondo) a
Hilary Putnam (gli
«oggetti» non esistono indipendentemente dagli «schemi
concettuali») sino
a quegli autori che stentano a identificarsi col paradigma della
filosofia
analitica, come Richard Rorty.25 Che si accetti o meno questa forma di
relativismo,
sembra indiscutibile che l’approccio analitico alla questioni ontologiche
non ambisce a
restituire un inventario del mondo che vada bene per tutti.
L’analisi logica
può contribuire a superare dei disaccordi apparenti ma non può
garantire un
affiatamento assoluto. A questo si aggiunge, come vedremo, il fatto
che un accordo
sull’ontologia non comporta automaticamente un accordo metafisico.
Quand’anche ci si
trovasse in sintonia sulla forma logica di un enunciato
23 Vedi
soprattutto i saggi raccolti in Quine, 1968.
24 Cfr. Quine,
1990, p. 52.
25 Vedi ad es.
Goodman, 1978, Putnam, 1981, e Rorty, 1979.
12
che asserisce
l’esistenza dei tavoli (per esempio) si potrebbe dissentire sulla
natura dei tavoli.
E a questo punto il discorso si fa propriamente metafisico.
III - Gli oggetti
materiali
Che cos’è un
tavolo? Supponiamo di trovarci d’accordo nel classificare un tavolo
come un oggetto
materiale, o concreto (a differenza per esempio degli
schiaffi o delle
virtù, che la maggior parte dei filosofi aggiudicherebbe a categorie
metafisiche diverse).
Ma che cos’è un oggetto materiale? In che cosa si distingue
da altre entità
come gli eventi o le proprietà? Storicamente l’atteggiamento
dei filosofi
analitici nei confronti di questo interrogativo è stato incostante e
possiamo
distinguere due fasi principali.
1. La centralità
della nozione di oggetto
Durante una prima
fase, durata approssimativamente sino al termine degli anni
Sessanta, pochi si
ponevano l’interrogativo in maniera esplicita e articolata. La
preoccupazione
principale era di fare chiarezza su tutto il resto (schiaffi e virtù
ma anche numeri,
pensieri, dati sensoriali, colori, e via dicendo, non di rado allo
scopo di
«eliminare» queste entità dall’inventario ontologico piuttosto che di
chiarirne la natura
metafisica) mentre lo statuto dei comuni oggetti materiali era
dato per scontato.
Ayer parlava genericamente di «oggetti familiari» e Austin di
«articoli da
emporio di modeste dimensioni»26, ed è significativo che la principale
opera di
consultazione di stampo analitico—gli otto volumi dell’Encyclopedia
of Philosophy di
Paul Edwards27—non contenesse nemmeno la voce ‘oggetto’
(o la voce
‘cosa’). L’eccezione più significativa a questo atteggiamento
diffuso è
costituita da Strawson, il cui Individui del 1959 aveva come obiettivo
principale proprio
la chiarificazione (in una prospettiva di metafisica descrittiva)
della centralità
della nozione di oggetto materiale. Per Strawson gli oggetti
sono dei
particolari, e in ciò evidentemente si differenziano dalle proprietà intese
come universali.
Ma gli oggetti sono, inoltre, caratterizzati dal fatto di essere
estesi nello
spazio e duraturi nel tempo, e accessibili agli strumenti di osservazione
di cui disponiamo
(e quindi da noi identificabili e reidentificabili). In questo
senso gli oggetti
si differenzierebbero anche da altri particolari, come gli eventi,
che sono estesi
nel tempo come nello spazio, e che non risultano identifi-
26 Vedi rispettivamente
Ayer, 1940, p. 2 e Austin, 1962, p. 23 tr. it
27 Edwards, 1967.
13
cabili se non a
partire dagli oggetti stessi che vi partecipano. In effetti il contributo
principale di
Strawson è stato proprio quello di aver per primo cercato di
chiarire
quest’ultima differenza, evidenziando il nesso di dipendenza asimmetrica
che sembra
sussistere tra le due categorie ontologiche sulla base di considerazioni
perfettamente in
linea con lo spirito analitico illustrato nella sezione
precedente.
Strawson osserva infatti che sebbene un’asserzione come (16) implichi
logicamente la
(17):
(16) x è un tavolo
(17) C’è un evento
che è la fabbricazione di x,
quest’ultima
asserzione ammette una parafrasi in cui l’evento della fabbricazione
non viene
direttamente chiamato in causa:
(17a) x è stato
fabbricato.
(Vedi ancora il
nesso tra (6a) e (6b).) Quindi l’ammissione nel nostro discorso
dei tavoli, intesi
come oggetti materiali, non comporta una corrispondente ammissione
delle loro fabbricazioni,
intese come eventi: i primi non dipendono
concettualmente (e
quindi per Strawson nemmeno ontologicamente) dai secondi.
Per contro, è
anche vero che un’asserzione come (18) implica la (19):
(18) x è una
fabbricazione
(19) C’è un
oggetto di cui x è la fabbricazione
ma quest’ultima
asserzione non sembra ammettere parafrasi di sorta. Quindi
l’ammissione nel
nostro discorso delle fabbricazioni sembra comportare in maniera
irriducibile
l’ammissione di un corrispondente numero di tavoli e altri fabbricati,
intesi come
oggetti materiali.
La forza
dell’argomento varia, naturalmente, a seconda della portata (ermeneutica
o rivoluzionaria)
che si attribuisce alla parafrasi.28 Qui ci preme sottolineare
soprattutto come
Strawson si accontenti di lavorare con una nozione di
oggetto in cui le
caratteristiche di estensione spaziale e di durata temporale vengono
assunte come
primitive e, in certa misura, saldamente ancorate all’intuizione.
Tuttavia proprio
queste caratteristiche nascondono insidie e difficoltà di
non poco conto. Si
pensi al tradizionale rompicapo della nave di Teseo di cui
narrava
Plutarco29, che per rimanere nell’esempio del tavolo potremmo riformulare
nei termini
seguenti: che cosa giustifica la nostra intuizione secondo cui
28 Tra i critici
dell’argomento di Strawson vedi Moravcsik, 1968, e Tiles, 1981.
29 Vite Parallele,
Teseo 23.1.
14
il tavolo con cui
abbiamo a che fare rimane lo stesso a dispetto dei continui
cambiamenti
qualitativi ai quali è sottoposto? Supponiamo che al trascorrere
del tempo alcune
parti del tavolo si stacchino e vengano sostituite con parti
nuove. In ciascun
caso il cambiamento è minimo e tale da giustificare la nostra
intuizione (possiamo
immaginare che il tavolo sia di vimini e che le parti sostituite
siano così piccole
da rendere impercettibili le variazioni). Tuttavia al termine
del processo il
cambiamento è radicale: possiamo ancora dire di avere
quello stesso
tavolo da cui siamo partiti? Per complicare la situazione possiamo
supporre che le
cose vadano come suggeriva Hobbes: man mano che le parti
iniziali si
staccano, un amico le raccoglie e le ricompone nell’ordine originale.30
Se immaginiamo che
il processo porti alla sostituzione di tutti i pezzi di cui è
composto il tavolo
iniziale, x, ci ritroveremo alla fine con due tavoli: uno composto
interamente di
pezzi nuovi, ma legato a x da un nesso di continuità qualitativa
e spazio-temporale
che sembra giustificare l’intuizione per cui si tratta
comunque del
medesimo tavolo, e uno composto interamente dai pezzi originali,
simile in tutto e
per tutto a x, e quindi a sua volta tale da giustificarne
l’identificazione
con x. È chiaro tuttavia che due tavoli non possono essere identici
a un tavolo, e
quindi ecco che l’idea secondo cui il tavolo è un’entità che
persiste nel tempo
dà origine a un dilemma: quale dei due tavoli è x?
Anche l’idea
secondo cui il tavolo è esteso nello spazio—e più in generale
l’idea per cui gli
oggetti materiali sarebbero «gli occupatori di spazio primari»,
nelle parole dello
stesso Strawson31—dà luogo a dilemmi di vecchia data.32 Sia
y una piccola
parte del tavolo x, sia z la parte rimanente, e supponiamo che a un
certo istante, t,
la parte y si stacchi da z. Siccome y è veramente piccola e insignificante,
l’intuizione
sembrerebbe suggerire che a partire da t il tavolo x coincida
con z, cioè con la
parte rimanente. Tuttavia prima di t il tavolo non coincideva
con z ma includeva
z fra le sue parti proprie. Quindi eccoci di nuovo dinnanzi
a un rompicapo: o
affermiamo che dopo l’istante t gli oggetti x e z coincidono
ma non sono
identici (contrariamente all’intuizione secondo cui due oggetti
non possono
occupare contemporaneamente lo medesima regione di spazio),
o affermiamo che
prima dell’istante t gli oggetti x e z sono identici pur non
coincidendo
(contrariamente all’intuizione secondo cui uno stesso oggetto non
può occupare
contemporaneamente due regioni di spazio), oppure accettiamo
30 De corpore,
xi.7.
31 Strawson, 1959,
p. 49 tr. it.
32 Si è soliti
attribuire il rompicapo seguente a un sophisma di Guglielmo di Sherwood
(cfr.
Syncategoremata, 6) ma se ne trova traccia già negli stoici: vedi Sedley, 1982.
15
di rivedere
qualche altro principio che sembra governare le nostre intuizioni
concernenti
l’identità degli oggetti materiali ma che evidentemente non è del tutto
compatibile con la
loro caratterizzazione in termini di meri «occupatori di
spazio».
2. Il
tridimensionalismo
Non appena si
torna a riflettere su interrogativi come questi, la nozione di oggetto
materiale che
sembrava semplice e primitiva si rivela problematica, non
meno di altre
nozioni che potrebbero a prima vista sembrare più oscure e controverse
come quelle di
evento o di proprietà. E proprio su questi interrogativi
che a partire
dalla fine degli anni Sessanta—e questa è la seconda fase alla quale
si alludeva sopra—si
è aperta una discussione molto intensa e approfondita che
ha portato
all’elaborazione di diverse teorie metafisiche sulla natura degli oggetti
materiali.
Semplificando un po’ possiamo distinguere tre teorie principali. La
prima, che si
dichiara amica del senso comune, tiene fede all’intuizione strawsoniana
per cui gli
oggetti sono entità tridimensionali estese nello spazio ma
non nel tempo. Le
altre due teorie corrispondono invece a una concezione
«quadridimensionalista»
(secondo la quale gli oggetti materiali sono estesi anche
nel tempo) e a una
loro concezione «sequernzialista» (secondo la quale gli oggetti
materiali sono per
la maggior parte costruzioni fittizie).
David Wiggins è
forse il rappresentante più significativo della concezione
tridimensionalista
e il suo libro Sameness and Substance può a buon diritto
considerarsi il
principale contributo alla letteratura.33 La tesi sottostante è che
ogni cosa sia un
qualcosa, cioè un’entità di qualche tipo, e che sia proprio il
tipo di appartenenza
a determinarne le condizioni di identità nello spazio e nel
tempo. Due tavoli
non possono occupare contemporaneamente una medesima
regione di spazio,
sostiene Wiggins; ma due oggetti di tipo diverso sì, un po’
come due
istituzioni di tipo diverso (lo stato di Amburgo e la città di Amburgo)
possono avere
esattamente le stesse coordinate spaziali. Lo stesso Locke, nel
formulare per la
prima volta il principio intuitivo che lega l’identità alla coincidenza
spazio-temporale,
si era preoccupato di relativizzare l’identità a entità
dello stesso
tipo.34 E se accettiamo questa relativizzazione il secondo rompicapo
citato sopra si
dissolve immediatamente: x è un tavolo ma z non lo è, poiché
33 Vedi Wiggins,
1980. Una prima versione di questo libro era apparsa come Wiggins,
1967. Una terza
versione è apparsa come Wiggins, 2001.
34 Saggio,
ii-xxvii-17.
16
nell’introdurre
‘z’ abbiamo fatto esplicitamente riferimento a una parte propria
di x (e nessuna
parte propria di un tavolo è a sua volta un tavolo). Non solo: z
non diventa un
tavolo nemmeno dopo la separazione del pezzettino y, poiché
secondo la teoria
in esame il tipo di appartenenza definisce una caratteristica
essenziale, che
nessun oggetto può perdere o acquisire nel corso della propria
esistenza. Quindi
x e z sono oggetti di tipo diverso. E di conseguenza non ci
sarebbe nulla di
strano nell’ammettere che entrambi possano trovarsi a occupare
la stessa regione
di spazio. Quanto al primo rompicapo—quello dell’identità
attraverso il
cambiamento—la risposta fornita dalla teoria è che il tavolo iniziale
debba essere
identificato con quello che di mano in mano si ottiene sostituendo
i pezzi che si
staccano. Il motivo, per Wiggins e per gli altri filosofi di queste
vedute35, non è
solo che in questo caso viene rispettato il principio della «continuità
spazio-temporale»:
viene rispettato anche un principio di «uniformità
sortale» che si
esprime, appunto, nell’essenzialità del tipo di appartenenza.
Siccome pochi
pezzi provenienti da un tavolo non sono sufficienti a formare un
tavolo (ammesso
che formino qualcosa), dal punto di vista di questa teoria è
evidente che il
tavolo ottenuto ricomponendo i pezzi staccati comincia a esistere
soltanto a un
certo punto, quando si saranno uniti un numero sufficiente di
pezzi. Quindi quel
tavolo non può essere identico al tavolo iniziale. Per contro,
il tavolo che
continua a subire modificazioni continua a essere un tavolo, cioè
ricade sotto lo
stesso tipo durante tutte le fasi della propria esistenza, e quindi
non c’è difficoltà
a stabilire un nesso di identità tra quel tavolo e il tavolo iniziale
da cui ha avuto
inizio l’intero processo.
3. Il
quadridimensionalismo
Ovviamente, il
problema principale che questa prima teoria degli oggetti si trova
a dover affrontare
riguarda la nozione di «tipo» alla quale fa riferimento in
maniera così
determinante. Quali sono i tipi in cui si suddividono gli oggetti?
Esistono
indipendentemente dalle parole che usiamo o sono una emanazione del
nostro apparato
linguistico-concettuale? Posto che non ogni predicato della lingua
italiana corrisponde
a un tipo (sarebbe sorprendente se il linguaggio fosse
così aderente alla
realtà), in base a quali criteri è possibile effettuare una selezione?
E via dicendo. Una
seconda teoria muove proprio da perplessità di questo
genere e si
risolve nell’abbandono della tesi per cui gli oggetti sarebbero en-
35 Altri
rappresentanti del punto di vista in esame includono ad es. Lowe, 1989 e 1998,
Oderberg, 1993, e
Rea, 1998.
17
tità
tridimensionali. Se per Strawson e Wiggins gli oggetti persistono nel tempo
in quanto
permangono nel tempo, pur al variare delle proprie qualità, per questa
seconda teoria—che
affonda le radici in autori come Whitehead e come gli
stessi Russell e
Quine, ma che ha trovato piena espressione soprattutto a opera
di filosofi come
John Smart, David Lewis, e Mark Heller36—la persistenza degli
oggetti non è
altro che la loro estensione nel tempo: essi persistono in quanto
si protraggono nel
tempo. Seguendo una terminologia che risale a Johnson si è
soliti dire che nel
primo caso (teoria tridimensionalista) gli oggetti sono dei
«continuanti»
mentre nel secondo caso (teoria quadridimensionalista) gli oggetti
sono degli
«occorrenti», un po’ come gli eventi.37 I continuanti persistono in
quanto continuano
a esistere: essi sono sempre presenti nella loro interezza in
tutti gli istanti
di tempo in cui esistono, e un’asserzione di identità diacronica
come
(20) Il tavolo che
stamani era in soggiorno è lo stesso tavolo che stasera è
in cucina.
afferma l’identità
numerica di un continuante che esiste (interamente) in un certo
momento in un
certo luogo e un continuante che esiste (interamente) in un
altro momento in
un altro luogo. Gli occorrenti invece persistono in quanto le
loro parti si
susseguono nel tempo, un po’ come le parti di un fiume si susseguono
nello spazio: essi
non sono mai interamente presenti (fatto salvo il caso
limite di oggetti
istantanei), e un’asserzione come (20) equivale ad asserire
l’identità di un occorrente
le cui parti mattutine si trovano in un certo luogo e
un occorrente le
cui parti serali si trovano in un altro luogo. Per molti filosofi
questa teoria è
controintuitiva e non manca chi l’ha definita un vero e proprio
«pantano
metafisico», o addirittura una «metafisica folle»38 Ma non manca
nemmeno chi ha
sottolineato la maggiore adeguatezza della teoria quadridimensionalista
rispetto
all’immagine che proviene dalle scienze fisiche. In particolare,
l’idea per cui gli
oggetti sono entità a quattro dimensioni trova un certo
supporto nel
linguaggio della teoria speciale della relatività, dove proprietà
temporali come
«prima di adesso» non presentano in linea di principio caratteristiche
diverse da
proprietà spaziali come «a est di qui», e dove la nozione
36 Vedi ad es.,
nell’ordine, Whitehead, 1929, Russell, 1927, Quine, 1960, Smart, 1972,
Lewis, 1986, e
Heller, 1990.
37 Johnson, 1924,
cap. 7 (i termini inglesi sono ‘continuant’ e ‘occurrent’). La stessa
terminologia si
ritrova in Broad, 1933, pp. 138 sgg.
38 Cfr. Hacker,
1982, p. 4, e Thomson, 1983, p. 210.
18
stessa di
«simultaneità» perde di significato. (Se la simultaneità delle parti spaziali
è relativa—dirà il
quadridimensionalista—non ha senso dire di un oggetto
che è interamente
presente in un determinato momento.)
Una volta che si
accetti la teoria quadridimensionalista, non è difficile vedere
come entrambi i
rompicapi discussi sopra trovino una soluzione immediata.
In quanto oggetti
quadridimensionali, il tavolo x e l’oggetto z che si ottiene da x
rimuovendone una
piccola parte y sono distinti e non c’è difficoltà ad affermare
che il primo
include propriamente il secondo: z è una parte spazio-temporale di
x poiché a ogni
istante di tempo in cui esistono entrambi, le parti spaziali di z
sono incluse (e a
un certo punto coincidono) con le parti spaziali di x. Quindi a
partire
dall’istante t diremo che z si trova a occupare esattamente la stessa regione
di spazio del
tavolo intero, x, ma questo non è un problema e non comporta
moltiplicazioni
ontologiche di sorta, non più di quanto non sia un problema
dire che a partire
da un certo punto (nei pressi di Vigevano) la parte lombarda
del Ticino viene a
coincidere con il fiume nella sua interezza. Questo risolve
il secondo
rompicapo. Quanto al primo—quello ispirato alla nave di Teseo—
la soluzione della
teoria quadridimensionale è fondamentalmente deflazionista:
chiedersi quale
tra i due tavoli finali sia da identificarsi col tavolo iniziale,
e su quali basi,
sarebbe una domanda mal posta. Se intendiamo parlare delle fasi
terminali di due
occorrenti, allora è chiaro che entrambi vanno distinte dal tavolo
di partenza,
comunque lo si voglia costruire. Se invece intendiamo parlare
dei due oggetti
nella loro interezza quadridimensionale—due occorrenti che alla
fine del processo
sono a forma di tavolo ma che hanno parti temporali molto
diverse—allora il
problema è eminentemente semantico: a quale di questi due
oggetti ci
riferiamo quando parliamo del tavolo iniziale? Presumibilmente le nostre
pratiche
linguistiche suggeriscono di favorire il primo, cioè quello le cui
parti temporali
intermedie sono legate fra loro da un robusto nesso di continuità
e similarità, e
che condividono l’importante proprietà di essere tutte a forma di
tavolo (le parti
temporali del secondo oggetto, quello ottenuto ricomponendo i
pezzi man mano che
si staccano dal primo, non godono di questa proprietà se
non verso la fine
del processo). Tuttavia questa preferenza non avrebbe mordente
metafisico:
entrambi gli oggetti farebbero parte del mondo, entrambi avrebbero
una propria storia
e una propria identità, e l’unica differenza risiederebbe
nella nostra
propensione a selezionarne uno quale referente di una determinata
espressione
linguistica, in questo caso la descrizione ‘il tavolo’. In effetti
è abbastanza
comune tra i quadridimensionalisti non porre alcuna restrizione
19
sul novero degli
occorrenti ammissibili: in linea di principio ogni regione di spazio-
tempo—«per quanto
sconnessa e irregolare», precisava Quine39—può corrispondere
a qualcosa,
sebbene alcuni occorrenti siano più omogenei di altri e
per questa ragione
occupino una posizione di maggior rilievo nella nostra vita
quotidiana e nel
nostro sistema linguistico. Per un quadridimensionalista le differenze
ci sono ma sono,
appunto, di ordine cognitivo o di natura pragmatica,
non metafisica. (Resterebbe
da decidere se distinguere o meno tra questi occorrenti,
intesi come
oggetti, e gli eventi che hanno luogo nelle medesime regioni.
Come ha osservato
Hugh Mellor40, Churchill intitolò il resoconto autobiografico
della propria
giovinezza My early life, non Early me, ma per un quadridimensionalista
che non voglia
ammettere entità interamente co-localizzate la differenza
tra i due titoli
potrebbe essere di natura puramente stilistica.)
4. Il
sequenzialismo
Tra i vari
problemi che la teoria quadridimensionalista si trova ad affrontare vi è
certamente quello
di fare chiarezza su questa importante questione: fino a che
punto i rompicapi
di cui si occupa la metafisica degli oggetti materiali sono in
realtà problemi
attinenti esclusivamente alla sfera semantica (o cognitiva in senso
lato)? Una volta
ammessa un’ontologia in cui ogni regione spazio-temporale
corrisponde a
un’entità, c’è ancora spazio per disquisizioni genuinamente metafisiche
o si tratta
semplicemente di fare chiarezza sul nostro apparato linguistico-
concettuale, sul
nesso semantico che unisce queste parole ad alcune di quelle
entità? In questo
senso, benché a prima vista il quadridimensionalismo rifletta
una concezione della
metafisica decisamente poco descrittiva, vi è un senso
profondo in cui la
si può considerare una teoria molto vicina allo spirito della
filosofia
analitica.
Veniamo così alla
terza importante teoria intorno alla quale si è sviluppato
un ampio dibattito
a partire dalla fine degli anni Sessanta. Si tratta di una concezione
degli oggetti che
in un certo senso giace a metà strada tra la concezione
tridimensionalista
e quella quadridimensionalista e che potremmo denominare
«teoria
sequenzialista». Secondo questa teoria—la cui formulazione più articolata
risale a Person
and Object di Chisholm41—quelli che chiamiamo tavoli (per
esempio) non sono
propriamente entità persistenti nel tempo e quindi i rompi-
39 Quine, 1960, p.
212 tr. it
40 Mellor, 1998,
p. 86.
41 Chisholm, 1976.
20
capi da cui siamo
partiti non sorgono. Tanto per cominciare, per un filosofo di
quest’orientamento
quando parliamo di un tavolo stiamo semplicemente parlando
di particelle
disposte-a-tavolo. (Se volessimo esprimerci in forma canonica,
dovremmo quindi
servirci di parafrasi come quelle esemplificate dalla coppia
(10) e (10a).) In
secondo luogo, quando instauriamo un legame di identità diacronica
tra ciò chiamiamo
‘questo tavolo’ in due diverse circostanze, o tra i referenti
di due descrizioni
definite marcate temporalmente come ‘il tavolo che
stamani era in
soggiorno’ e ‘il tavolo che stasera è in cucina’, dobbiamo distinguere
tra una nozione
«stretta e filosofica» di identità e una nozione «ampia e
popolare».42 Nel
primo senso l’asserzione di identità è molto probabilmente
falsa, poiché è
molto probabile che ci si stia riferendo a due diversi aggregati di
particelle
(qualche molecola si è staccata; qualche altra si è aggregata). Nel secondo
senso l’asserzione
di identità può essere vera, ammesso che sussistano i
richiesti legami
di continuità e omogeneità di cui abbiamo già parlato con riferimento
alle altre teorie;
ma in tal caso non si tratterebbe di un’identità effettiva
in quanto le entità
di cui si sta parlando non sono entità reali. Si tratterebbe
piuttosto di
costruzioni fittizie costituite da «sequenze» di entità reali—
sequenze di
particelle disposte-a-tavolo. Si tratterebbe di entia successiva la
cui omogeneità
interna attrae la nostra attenzione al punto da indurci a identificarne
i membri
attribuendo loro un’identità individuale quando in realtà abbiamo
a che fare con
entità diverse, un po’ come diversi sono a ben vedere gli
aggregati di
persone che costituiscono una squadra di calcio in momenti successivi
della sua storia
(senza che ciò ci induca a cambiare continuamente il nome
della squadra) o
gli aggregati di puntini illuminati che sullo schermo cinematografico
corrispondono
all’immagine di un cavallo in corsa (senza che ciò ci impedisca
di parlarne come
di una stessa immagine che si sposta). Per un filosofo
sequenzialista
queste sequenze di aggregati non vanno incluse in un inventario
del mondo, anche
se spesso è proprio a queste entità fittizie che intendiamo
riferirci col
pensiero o con le parole. (Come scriveva Reid, quando le alterazioni
sono graduali si
continua a usare lo stesso nome e a trattare cose diverse come
se fossero una
cosa sola, perché il linguaggio «non può permettersi un nome
diverso per ogni
stato diverso».43) Di conseguenza i due rompicapi di cui abbiamo
parlato non
sarebbero che la manifestazione di un’inevitabile tensione
che viene a
crearsi quando mescoliamo inopportunamente l’immagine «stretta e
filosofica» del
mondo con l’immagine «ampia e popolare» alla quale facciamo
42 Vedi Chisholm,
1969.
43 Saggi,
III.iii.ii.
21
riferimento nelle
nostre pratiche quotidiane.
Possiamo
distinguere tra forme moderate e forme estreme di sequenzialismo,
a seconda che si
voglia applicare questo punto di vista soltanto a oggetti
come i tavoli e le
squadre di calcio (degli artefatti) o anche ad altri oggetti più
«naturali»,
animali e persone incluse. Chisholm optava per una posizione moderata
ma in tempi più
recenti non mancano filosofi, come Ted Sider, che non
esitano a
difendere posizioni anche molto radicali.44 (Viene spontaneo instaurare
un’analogia tra i
due sensi di identità del sequenzialista e la distinzione tra
«identità
fittizia» e «identità reale» su cui aveva insistito Hume.45) Possiamo
inoltre
distinguere diverse varianti a seconda che si voglia riconoscere diritto di
cittadinanza
soltanto alle particelle—o a qualunque cosa svolga funzioni analoghe—
oppure anche ai
loro aggregati: non gli aggregati diacronici corrispondenti
agli entia
successiva bensì gli aggregati di cui le particelle sono parti spaziali,
indipendentemente
dalla loro configurazione geometrica (oggi disposte a formare
un tavolo, domani
sparse dappertutto). Chisholm optava per la seconda posizione
ma vi sono autori
più recenti, come Peter Van Inwagen e Trenton Merricks,
che preferiscono
la prima opzione fatto salvo per quegli aggregati che costituiscono
«entità
viventi».46 Infine possiamo distinguere due varianti a seconda
che le particelle
stesse (e nel caso anche i loro aggregati) siano intese come
entità tridimensionali
o quadridimensionali. Chisholm la pensava nel primo modo
ma altri filosofi,
come Hud Hudson47, preferiscono identificarsi con la seconda
posizione.
5. Oltre le teorie
Questi esempi
dovrebbero essere sufficienti per fornire un quadro dell’intenso
dibattito che ha
caratterizzato la seconda fase della riflessione filosofica sullo
statuto degli
oggetti materiali. A questo punto è solo il caso di sottolineare che
la rivalità tra le
diverse alternative—tridimensionalismo, quadridimensionalismo,
varie forme di
sequenzialismo—si fa particolarmente interessante proprio
nel momento in cui
il problema di render conto dello statuto e delle condizioni
di identità degli
oggetti materiali si salda col problema di render conto della metafisica
delle persone e
delle loro condizioni di identità e persistenza nel tempo.
44 Vedi Sider,
2001.
45 Trattato,
i.iv.6.
46 Vedi Van
Inwagen, 1990) e Merricks, 2001.
47 Hudson, 2001.
22
Per molti filosofi
è questo il test fondamentale con cui valutare l’adeguatezza di
una teoria
metafisica degli oggetti alla luce dei suoi costi e benefici, indipendentemente
dalla natura
descrittiva o correttiva della teoria: un conto è rivedere alcune
nostre intuizioni
sui tavoli e sul nostro concetto di tavolo; altro conto è
mettere in
discussione l’intuizione quando si tratta della nostra stessa identità e
del nostro stesso
persistere nel tempo. Su questo tema, e sulle sue complesse
ramificazioni in
campo etico, politico, e psicologico, il dibattito tra i filosofi
analitici è oggi
più aperto che mai.48
IV - Le proprietà
Per molti filosofi
il mondo non consiste solo di oggetti materiali. Altre entità
vanno incluse
affinché si possa render conto della verità di certe asserzioni e di
certe teorie sul
mondo. Anche il filosofo di convinzioni naturaliste può ritenere
necessario
adottare una metafisica che non riduca il mondo al mondo naturale,
per esempio perché
può ritenere che le verità delle scienze fisiche dipendano
dalle verità della
matematica, che a loro volta sembrano dipendere dall’esistenza
di entità astratte
come i numeri o gli insiemi. Come già si è ricordato, questo era
l’orientamento
dello stesso Quine e corrisponde a una posizione piuttosto diffusa
tra i naturalisti
contemporanei.49 Ma se il dibattito sulla natura delle entità
astratte della
matematica ha occupato una posizione di assoluto rilievo nel panorama
dell’ontologia e
della metafisica analitica, ancora più centrale e in certa
misura
paradigmatico è stato il dibattito su quelle entità astratte che sembrano
essere chiamate in
causa ogni volta che facciamo un’asserzione sul mondo: entità
che
corrisponderebbero non già al termine in posizione di soggetto di un enunciato
elementare bensì
al termine in posizione di predicato. Quando per esempio
facciamo
un’affermazione come
(21) Il tavolo è
rosso
non stiamo
semplicemente parlando del tavolo, altrimenti il valore di verità
della nostra
asserzione sembrerebbe dover coincidere con quello di una qualunque
altra affermazione
che si riferisce a quell’oggetto, fra cui affermazioni come
(22) Il tavolo è
verde
48 Vedi i capitoli
‘Etica’ e ‘Filosofia della mente’ inclusi nel presente volume.
49 Sul naturalismo
in metafisica vedi Hughes, 1998.
23
con le quali (21)
è incompatibile. Di che cos’altro stiamo parlando? E che relazione
sussiste tra il
tavolo e quest’altra cosa dalla quale sembra dipendere la
verità della
nostra asserzione?
1. Il problema
degli universali
Nella storia della
filosofia questi interrogativi sono noti come il «problema degli
universali» e
risalgono almeno a Platone. Tra i filosofi analitici il problema è
paradigmatico
proprio di quella «barba di Platone» di cui si parlava in apertura,
ed è su questa
barba che il «rasoio di Occam» si è spuntato più spesso. (Esiste
ovviamente un
problema analogo e più generale nel caso degli enunciati relazionali,
ma ci limiteremo
per semplicità al caso degli enunciati in forma soggettopredicato.
Sempre per ragioni
di semplicità assumeremo anche che gli enunciati
in questione siano
effettivamente in questa forma, aggirando del tutto le complicazioni
discusse in
relazione all’analisi russell-quineana.)
Possiamo
distinguere tre principali correnti di pensiero. Secondo la prima—
la corrente
realista, o platonista—l’analisi di enunciati come (21) e (22)
richiede che venga
effettivamente postulata l’esistenza di un’entità corrispondente
al termine in
posizione di predicato, un’entità che viene letteralmente
«predicata»
dell’entità corrispondente al termine in posizione di soggetto (o di
cui l’entità
corrispondente al termine in posizione di soggetto «partecipa», nella
terminologia del
Parmenide50). E siccome l’entità postulata è la stessa ogni volta
che viene usato il
predicato, indipendentemente dal soggetto di cui la si predica
e
indipendentemente dall’ubicazione spazio-temporale di quest’ultimo (il
tavolo ha lo
stesso colore del tappeto), per il realista ne segue che abbiamo a
che fare con una proprietà
universale e non con un individuo particolare. La seconda
corrente di
pensiero è quella nominalista, cosiddetta perché si identifica
con la tesi per
cui le espressioni che figurano in posizione predicativa non sono
altro che «nomi»
(intesi come nomi comuni, cioè parole che si applicano a una
pluralità di
individui particolari, piuttosto che come nomi propri di proprietà
universali). Per
alcuni nominalisti i predicati non fanno altro che registrare certe
nostre convenzioni
linguistiche; per altri i predicati si applicano alle cose particolari
in virtù di una
oggettiva somiglianza di queste ultime. In entrambi i casi,
il nominalista
nega che per rendere conto delle condizioni di verità di enunciati
come (21) e (22)
occorra chiamare in causa delle entità in più rispetto a quelle
cui si applica (o
non si applica) il predicato. La terza corrente di pensiero è tal-
50 Cfr. Platone,
Parmenide, 130e–131a.
24
volta considerata
una variante della posizione nominalista, ma può essere assegnata
a una posizione
intermedia tra il realismo e il nominalismo. Secondo questa
corrente di
pensiero—che chiameremo particolarista—esistono effettivamente
delle entità
corrispondenti ai predicati; ma queste entità non sono degli
universali bensì
dei particolari. Per un particolarista esse sono il genere di cose
che Leibniz aveva
chiamato «accidenti individuali» e che in tempi più recenti
Donald Williams ha
denominato «tropi»: sono dei particolari astratti che in un
certo senso
«caratterizzano» i particolari concreti a cui si applicano—e niente
altro.51
2. Il nominalismo
Nell’ambito della
filosofia analitica, la corrente realista è stata sicuramente dominante.
Da Frege a
Russell, da Strawson a Bergmann, da Armstrong a Mellor,
la tesi per cui i
predicati (o certi predicati) devono corrispondere a universali di
qualche tipo è
stata fatta propria da filosofi anche molto diversi fa loro, e sulla
base di
considerazioni molteplici.52 Per esempio, accanto alla necessità di spiegare
le condizioni di
verità di enunciati elementari come (21) e (22), la posizione
realista ha
comunemente trovato supporto nell’osservazione che il linguaggio ci
consente di
parlare esplicitamente delle proprietà, come quando diciamo
(23) Il rosso è un
colore.
E comunemente si è
insistito anche sulla necessità di garantire un fondamento
oggettivo e non
convenzionale alle affinità che riscontriamo fra quelle cose a cui
si applica (o si
potrebbe applicare) un medesimo predicato. Che cosa hanno in
comune il tavolo e
il tappeto quando diciamo che entrambi sono rossi, se non la
proprietà di
essere rossi?
Gli aspetti più
originali e innovativi del dibattito analitico sul problema degli
universali si
possono tuttavia apprezzare meglio concentrandosi sulle teorie
sviluppate dai
filosofi appartenenti alle altre due correnti di pensiero, i nominalisti
e i
particolaristi, e sulle loro reazioni alle argomentazioni e osservazioni
critiche dei
filosofi realisti. Cominciando dai primi, possiamo individuare due
fasi principali
nel nominalismo analitico del Novecento. La prima fase trova la
sua espressione
più significativa in un articolo di Goodman e Quine del 1947,
51 Vedi
rispettivamente Leibniz, Nuovi saggi, IV.vi.42, e Williams, 1953.
52 Vedi ad es.
Frege, 1891; Russell, 1912, capp. 9 e 10; Strawson, 1954; Bergmann,
1954; Armstrong,
1978; Mellor, 1991.
25
che muovendo dalla
dichiarazione «Non crediamo nelle entità astratte» proponeva
un metodo
sistematico per «farne a meno» attraverso opportune parafrasi
in cui ogni
enunciato che sembra chiamare in causa un universale (per limitarci
al nostro caso) è
sostituito da un enunciato in cui si parla solo di oggetti particolari.
53 Per esempio,
nel caso di un enunciato come (23) il riferimento esplicito
al colore rosso
potrebbe essere evitato attraverso una parafrasi in cui si parla
solo di oggetti
rossi:
(23a) Le cose
rosse sono colorate.54
Quanto poi alle
condizioni di verità di quest’ultimo enunciato, come pure di
enunciati
elementari quali (21) e (22), la posizione del filosofo nominalista
rappresentata
da Goodman e Quine
è semplicemente che non occorre postulare
alcuna entità
corrispondente al termine in posizione di predicato. Si può fare
un’affermazione
della forma
(24) x è così e
cosà
senza che ciò
debba dipendere dall’esistenza di un universale in virtù del quale
x è così e cosà: x
è così e cosà e basta (è «un fatto fondamentale e irriducibile»,
dirà Quine l’anno
successivo55).
Questa strategia è
stata molto criticata. Non solo in certi casi la parafrasi si
rivela laboriosa
(e inelegante) al punto da rendere necessaria la messa a punto di
un laborioso
apparato concettuale. Per esempio, un enunciato come
(25) Ci sono più
gatti che cani
veniva analizzato
da Quine e Goodman come
(25a) Ogni
individuo che contiene un pezzo di ogni gatto è più grande di
un individuo che
contiene un pezzo di ogni cane,56
con la conseguente
necessità di chiarire la complessa teoria delle parti e dell’intero
che le parafrasi
presuppongono57. La critica principale è che le parafrasi in
questione,
ancorché complesse e sofisticate, sono generalmente inadeguate, po-
53 Goodman e
Quine, 1947. Le citazioni sono dalla prima pagina.
54 Questo
particolare formato non compare tra i casi considerati da Goodman e Quine,
ma vedi per es.
Quine, 1960, p. 155 tr. it., per un trattamento esplicito.
55 Quine, 1948,
pp. 11–12 tr. it.
56 Goodman e
Quine, 1947, p. 278 tr. it.
57 È il «calcolo
degli individui» di Leonard e Goodman, 1940.
26
sto che
l’adeguatezza di una parafrasi possa misurarsi almeno in parte con la
sua accettabilità
intuitiva. (Anche un nominalista rivoluzionario vorrebbe sottoscrivere
questo criterio.)
Pur limitandosi al caso di un semplice enunciato come
(23),
l’inadeguatezza emerge dal fatto che le condizioni di verità della parafrasi
proposta non
riescono a catturare appieno il significato dell’enunciato stesso.
Si noti infatti che
(23a) è vero se e solo se è vero
(26) Le cose rosse
sono estese nello spazio.
E se Berkeley
aveva ragione possiamo aggiungere che (23a) è vero se e solo se è
vero anche
(27) Le cose
estese nello spazio sono colorate.58
Ma ovviamente
questo non significa che il rosso sia un’estensione, e nemmeno
che l’estensione
sia un colore.59
Il metodo
suggerito da Quine e Goodman non è però il solo metodo disponibile
ai filosofi di
orientamento nominalista. Se parafrasi deve essere, non è
detto che la
parafrasi debba procedere eliminando le proprietà a favore dei proprietari.
L’alternativa più
significativa a questa linea di condotta corrisponde
alla seconda fase
del nominalismo analitico, che nei primi anni Sessanta trova la
sua espressione
più caratteristica in una serie di lavori di Wilfrid Sellars60. Sellars
prende molto sul
serio l’idea medievale per cui i predicati sono soltanto dei
nomi. E quando si
tratta di parafrasare enunciati come (23), in cui sembra che
questi nomi
vengano usati per riferirsi a qualcosa piuttosto che per registrare
delle convenzioni
linguistiche (o dei fatti «fondamentali e irriducibili»), Sellars
propone una
strategia completamente diversa da quella di Goodman-Quine. Per
Sellars la
parafrasi deve chiamare in causa non già le cose rosse bensì l’aggettivo
‘rosso’. In prima
approssimazione si potrebbe ricorrere a qualcosa come
(23b) ‘Rosso’ è un
predicato-di-colore,
dove
‘predicato-di-colore’ è da intendersi come un’etichetta che registra una
convenzione della
nostra comunità linguistica. Tuttavia questa analisi non considererebbe
il fatto ovvio che
comunità linguistiche diverse si avvalgono di convenzioni
diverse: la
traduzione di (23) in inglese ne conserva le condizioni di
58 Princìpi, I,
§10.
59 L’obiezione
risale a Prior, 1967, p. 146. Vedi anche Jackson, 1977, e Loux, 1998,
pp. 62–69, per
ulteriori complicazioni.
60 Vedi
soprattutto Sellars 1960 e 1963.
27
verità, ma la
traduzione di (23b) risulta inadeguata in quanto la parola fra virgolette
non appartiene al
vocabolario inglese. Inoltre l’analisi consentirebbe di
«fare a meno»
della proprietà corrispondente al termine ‘rosso’ al costo di un
impegno ontologico
altrettanto problematico dal punto di vista nominalista—
l’impegno nei
confronti della parola ‘rosso’. Le parole sono entità astratte,
entità che
ricorrono in un’ampia gamma di iscrizioni particolari anche molto
diverse fra loro,
dagli scarabocchi su un foglio di carta ai tratti di gesso su una
lavagna sino agli
eventi sonori prodotti da un apparecchio radiofonico. Per un
realista questo
non è un problema. Ma per il nominalista queste cose non ci sono:
esistono soltanto
le iscrizioni particolari (i «tokens» di cui parlava Peirce61)
non le parole che
in esse ricorrono (i «types»). Quindi adottando una parafrasi
come (23b) gli
universali cacciati dalla porta rientrerebbero dalla finestra. La
proposta di
Sellars consente di aggirare entrambi questi problemi. Basta munirsi
di un dispositivo
sintattico che consenta di fare riferimento non già ai types di
una determinata
lingua (come nel caso delle comuni virgolette di citazione) ma ai
tokens
corrispondenti. E poiché questi tokens sono oggetti concreti al pari dei
tavoli,62 basta
assicurarsi che il dispositivo sintattico consenta di riferirsi a tutti
i tokens
indipendentemente dalla lingua di riferimento: proprio come il predicato
italiano ‘tavolo’
si applica a tutti i tavoli di questo mondo (in virtù di una
loro irriducibile
affinità oggettiva o semplicemente in conseguenza di un complesso
insieme di
convenzioni linguistiche), possiamo immaginare di dotarci di
un predicato che
si applichi a tutti i tokens della parola ‘rosso’ e delle sue traduzioni
in tutte le altre
lingue. Nella fattispecie, Sellars propone di costruire il
predicato in
questione racchiudendo l’espressione linguistica tra virgolette speciali,
per esempio tra
due puntini. Otteniamo così
(23c) I ·rosso·
sono dei predicati-di-colore,
dove
‘predicato-di-colore’ è ora da intendersi come un’etichetta che registra non
solo le
convenzioni della nostra comunità linguistica ma anche quelle delle altre
comunità. E questa
parafrasi aggira tanto i difetti di (23b) quanto quelli dell’alternativa
iniziale (23a).
3. Il
particolarismo
61 Cfr. Peirce,
1906.
62 Il nominalista
materialista avrà qualche problema con quei tokens che si ottengono
proiettando delle
ombre o incidendo una superficie: vedi Casati e Varzi, 1994.
28
Non è il caso qui
di addentrarci in una valutazione di questa proposta. È più
importante
sottolineare come in entrambe le fasi dell’approccio nominalista il
problema degli
universali si trasforma in problema eminentemente ontologico, e
aggirato di
conseguenza. Tra le varie motivazioni per questo atteggiamento vi
era del resto la
convinzione che si debba fare a meno degli universali anche in
considerazione
della mancanza di chiari criteri concernenti le loro condizioni di
identità, in particolare
le condizioni sotto cui risulta lecito identificare la proprietà
corrispondente a
un dato predicato f e la proprietà corrispondente a un
altro predicato,
y. E soprattutto in seguito agli influenti argomenti di Quine, la
disponibilità di
un criterio di identità preciso è stato generalmente considerato
dai filosofi
analitici un requisito preliminare per l’impegno ontologico nei confronti
di entità di
qualsiasi tipo: «Niente entità senza identità»63.
Come già
accennato, tuttavia, l’eliminativismo nominalista non costituisce
l’unica
alternativa di rilievo alla posizione realista. Una seconda è quella che
abbiamo chiamato
particolarista, che nega l’esistenza degli universali pur accettando
l’intuizione
secondo la quale i predicati designano effettivamente delle
entità astratte.
Per un particolarista essi designano dei particolari astratti, o
tropi64, ovvero
entità che potendoci esprimere nel gergo del realista potremmo
caratterizzare
come «esemplificazioni» o «istanze» di corrispondenti entità universali.
Se il tavolo è
rosso è perché possiede una caratteristica ben precisa; e
se anche il
tappeto è rosso allora anche il tappeto possiede una caratteristica
analoga. Ma il
rosso del tavolo e quello del tappeto non sono la stessa cosa:
sono due rossi
distinti precisamente perché sono posseduti da due oggetti distinti,
un po’ come la mia
copia dei Buddenbrook è distinta da quella del mio
vicino. Il rosso
del tavolo è posseduto esclusivamente dal tavolo e si trova esattamente
dove si trova il
tavolo; quello del tappeto è posseduto esclusivamente
dal tappeto e si
trova esattamente dove si trova il tappeto. Per il realista questi
due rossi sono
esemplificazioni di un rosso universale e immanente. Per il particolarista
esse sono gli
unici rossi di cui abbia senso parlare.
A differenza della
posizione nominalista, la concezione particolarista è genuinamente
metafisica e non
si sottrae al confronto diretto con la teoria reali-
63 Il motto risale
a Quine, 1958, p. 55 tr. it. Si tratta peraltro di un punto di vista che
non tutti
condividono: vedi ad es. Strawson, 1976, e Jubien, 1996.
64 Il termine
«tropo» sta oggi prendendo il sopravvento, ma sino a qualche tempo fa la
terminologia era
molto varia: alcuni autori parlavano di «qualità particolarizzate» (Strawson,
1959, p. 138n tr.
it.), altri di «particolari perfetti» (Bergmann, 1967, § 5), altri ancora di
«proprietà-
unità» (Matthews e
Cohen, 1968) o «casi» (Wolterstorff, 1970).
29
sta.65 Williams,
che per primo ha dato pienamente corpo alla teoria, sosteneva
addirittura che i
tropi costituiscono l’«alfabeto dell’essere»66, nel senso che tutte
le altre entità
sarebbero costituite a partire da insiemi di tropi individuali: i
comuni oggetti
materiali non sarebbero altro che aggregati di tropi (il rosso del
tavolo, la sua
densità, la sua rotondità, e così via) e anche le proprietà potrebbero
essere costruite
alla stregua di aggregati di tropi (il rosso del tavolo, quello
del tappeto,
quello del pomodoro, e così via). È difficile immaginare a una tesi
più marcatamente
metafisica, e metafisicamente revisionista. Tuttavia anche per
Williams e per gli
autori che sono seguiti (Campbell, Bacon, e Mertz sono alcuni
fra i nomi più
rappresentativi67) il metodo analitico occupa una posizione
centrale
nell’elaborazione e chiarificazione della teoria. Per un teorico dei tropi
asserire che il
tavolo è rosso non significa asserire un fatto irriducibile e fondamentale
riguardante il
tavolo, come vorrebbe il nominalista, e non significa nemmeno
asserire che il
tavolo esemplifica un vero e proprio universale, come vorrebbe
il realista. Per
un particolarista asserire che il tavolo è rosso significa asserire
che il tavolo e il
rosso (inteso come universale) hanno un tropo in comune:
il rosso del
tavolo. Asserire un enunciato come (21) significa quindi, in ultima
analisi, asserire
un enunciato esistenziale:
(21a) Il rosso del
tavolo—quel particolare rosso—esiste.
Ed asserire un
enunciato come (23) significa asserire un enunciato universale
sulla falsariga
di:
(23d) Data una
qualunque cosa x, se il rosso di x esiste—quel particolare
rosso—allora è il
colore di una parte di x—quel particolare colore.
Anche in questo
caso, dunque, l’analisi ontologica si aggancia saldamente
all’analisi logica
e la proposta metafisica, di stampo dichiaratamente revisionista,
si traduce in un
revisionismo linguistico senza mezzi termini (a sua volta di
stampo preferibilmente
rivoluzionario).
65 Alcuni autori
(per es. Goodman, 1956) identificano il nominalismo con la dottrina secondo
cui esistono
soltanto entità particolari, e in questo senso il particolarismo può
considerarsi
una forma di
nominalismo. Tuttavia il contrasto con le teorie nominaliste illustrate sopra
permane.
66 Williams, 1953,
p. 5. La prima articolazione della teoria dei tropi (terminologia a parte)
si trova già in
Stout, 1921, 1923, che tuttavia non si spinge a tanto.
67 Vedi ad es.
Campbell, 1990, Bacon, 1995, e Mertz, 1996. Vedi anche la teoria dei
«truth-makers» di
Mulligan et al., 1984.
30
V - Conclusione
I problemi e le
teorie di cui abbiamo parlato sono tutt’altro che esaustivi
dell’ampia gamma
di tematiche che definiscono l’orizzonte della metafisica analitica.
Soprattutto negli
ultimi anni si può dire che i filosofi analitici si siano occupati
di tutte le
principali questioni di metafisica di cui è costellata la storia
della filosofia—la
natura degli oggetti materiali e delle proprietà ma anche
l’identità
personale, la causalità, il libero arbitrio e il determinismo, la vaghezza
ontologica, lo
statuto delle entità matematiche e degli oggetti fittizi, la metafisica
dello spazio e del
tempo, il relativismo, l’essenzialismo, la natura della necessità.
Sarebbe incongruo
pensare di fornire in poche pagine un quadro esauriente
di questa varietà
e ricchezza di temi. Tuttavia gli esempi considerati dovrebbero
consentire di
ricostruire almeno alcune importanti coordinate—sia nei
metodi sia nei
contenuti—che hanno contraddistinto l’approccio analitico alla
metafisica,
soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento. Concludiamo
dunque con due
osservazioni di ordine molto generale.
La prima è proprio
che la metafisica e l’ontologia occupano ormai una posizione
di primo piano nel
panorama della filosofia analitica. Dopo un periodo
iniziale
forzatamente limitato e all’insegna del disincanto e della chiarificazione
concettuale
piuttosto che della ricerca in senso stretto, negli ultimi anni si è assistito
a una vera e
propria impennata di popolarità e la produzione filosofica
in questo settore
è stata più proficua che mai. È difficile spiegare le ragioni di
questa linea di
tendenza. Ma si può almeno osservare che il metodo analitico ha
contribuito a
togliere la metafisica dal piedistallo sulla quale era stata collocata
dalla filosofia
dell’Ottocento, restituendola a quel dominio di interrogativi che
costituiscono
parte integrante del vasto processo col quale cerchiamo di dare un
ordine al mondo
che ci sta intorno e a cui siamo soliti far riferimento quando
parliamo e quando
pianifichiamo le nostre azioni. Il che non significa che questi
interrogativi
abbiano perso di spessore e di profondità. Al contrario: il compito
di «effettuare le
giuste scansioni della realtà», come si diceva qualche tempo fa,
presenta
trabocchetti che risultano tanto più insidiosi e interessanti quanto più
si cerca di
confrontarsi con quel senso comune che per il filosofo analitico costituisce
sempre e comunque
un imprescindibile punto di riferimento.
La seconda
osservazione riguarda la natura stessa di quest’impresa. Come
abbiamo visto, il
metodo analitico è costantemente in bilico tra una sua interpretazione
in chiave
«ermeneutica» e un’interpretazione «rivoluzionaria». È
un’opposizione che
si presenta in ogni dominio d’indagine filosofica, ma in metafisica
si associa saldamente
a un’altra distinzione importante, che abbiamo
31
identificato con
l’opposizione tra la concezione «descrittiva» e la concezione
«correttiva» o
«revisionista». Si tratta di concezioni molto diverse, a meno che
non si supponga
che i nostri concetti siano miracolosamente strutturati a immagine
e somiglianza del
mondo, e sicuramente la scelta tra una concezione e
l’altra
costituisce un importante motivo di riflessione (come lo è la scelta tra
una concezione
relativista e una concezione realista della metafisica). Ebbene, in
un certo senso
l’opposizione riguarda il delicato confine tra questioni puramente
semantiche e
questioni metafisiche vere e proprie. Se ci affidiamo alle implicazioni
di un certo modo
di parlare corriamo il rischio di perderci nei trabocchetti
della grammatica o
nell’indeterminatezza delle nostre intuizioni, e sembra
necessario andare
oltre il linguaggio; d’altra parte non è chiaro nemmeno come si
possa stilare un
«inventario del mondo» se non partendo dalle nostre intuizioni
e dalle nostre
pratiche linguistiche, quelle pratiche che in fin dei conti abbiamo
messo a punto
proprio per parlare di noi e del mondo che ci sta intorno. Per
ogni filosofo
questo dilemma deve costituire un importante scrupolo sul piano
metodologico. Per
un filosofo analitico si tratta del dilemma col quale la pratica
filosofica deve
confrontarsi quotidianamente.
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Bibliografia
ragionata
In metafisica la
letteratura di orientamento analitico è quasi esclusivamente disponibile
in lingua inglese.
Cominciando dalle opere a carattere generale, esiste
una buona scelta
sia di testi introduttivi sia di opere a carattere enciclopedico
o antologico, per
la maggior parte pubblicati nell’ultimo decennio. Tra i primi,
Contemporary
Metaphysics di M. Jubien (Blackwell, Oxford, 1997) può
essere un buon
punto di partenza: è di agevole lettura e copre tutti i temi principali,
anche se la scelta
di evitare del tutto i riferimenti bibliografici rende
quest’opera poco
utile per chi volesse proseguire nello studio. Più rigoroso e
approfondito, e
ben documentato, è Metaphysics: A Contemporary Introduction,
di M. J. Loux
(Routledge, Londra, 1998; seconda edizione 2002). Non è
sempre di lettura
facile e si limita ad alcune tematiche (essenzialmente quelle
discusse in questo
capitolo, oltre a una sezione sulla natura della necessità e una
sulle proposizioni
e altre entità astratte) ma consente comunque di farsi un
buon quadro dello
stato dell’arte. Più esaustivi, ma meno approfonditi, sono
The Elements of
Metaphysics, di W. R. Carter (Temple University Press, Philadelphia,
1990), Metaphysics
di R. Taylor, ormai giunto alla quarta edizione
(Prentice-Hall,
Englewood Cliffs, NJ, 1992), e A Survey of Metaphysics di E. J.
Lowe (Oxford
University Press, Oxford, 2002), mentre il volume di P. van Inwagen,
Metaphysics
(Westview Press, Boulder, CO., 1993), è sicuramente molto
approfondito e ben
documentato—come ci si può attendere da uno dei nomi
più discussi e
influenti degli ultimi anni—ma può risultare deludente proprio
per la parzialità
dei temi trattati. Altri validi testi a carattere introduttivo, anche
se un po’ più
datati, sono Metaphysics: A Contemporary Introduction di J. F.
Post (Pergamon
Press, New York, 1991), Metaphysics: An Introduction di B.
Carr (Humanities
Press International, Atlantic Highlands, 1987), Metaphysics:
The Elements di B.
Aune (University of Minnesota, Minneapolis, 1985), e
Metaphysics di D.
W. Hamlyn (Cambridge University Press, Cambridge, 1984).
Anche Metaphysics:
Methods and Problems di G. N. Schlesinger (Barnes &
Noble, Totowa, NJ,
1983) è ormai un po’ datato; si tratta però di un testo tuttora
stimolante che si
distingue per l’approccio originale, basato su un continuo
confronto tra i
temi e i metodi della metafisica (disamina concettuale, analisi
logico-linguistica,
esperimenti mentali) e quelli delle scienze empiriche. Infine, il
38
volume di Q. Smith
e N. L. Oaklander Time, Change and Freedom: An Introduction
to Metaphysics
(Routledge, Londra, 1995) è un testo singolare nell’impostazione
(che ruota intorno
al tempo come tema unificante dei problemi della
metafisica) ma
sufficientemente ad ampia copertura e corredato da un buon apparato
bibliografico e di
guida all’approfondimento. Tra i pochi testi disponibili
in lingua
italiana, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica di A. C.
Varzi (Carocci,
Roma, 2001) copre alcuni tra i temi maggiormente dibattuti negli
ultimi anni,
enfatizzando soprattutto il problema del delicato confine tra
questioni
semantiche e questioni metafisiche vere e proprie, mentre La metafisica
negata. Logica,
ontologia, filosofia analitica di M. Marsonet (Angeli, Milano
1990) può essere
utile soprattutto per una ricostruzione degli aspetti critici
che hanno
caratterizzato l’approccio della filosofia analitica all’ontologia e
alla metafisica.
Anche per i testi
a carattere enciclopedico e antologico esiste un’ampia
selezione. Tra i
primi segnaliamo i due volumi dell’Handbook of Metaphysics
and Ontology, a
cura di H. Burkhardt e B. Smith (Philosophia Verlag, Monaco,
1991), e A
Companion to Metaphysics, a cura di J. Kim e E. Sosa (Blackwell,
Londra, 1989).
Quest’ultimo si abbina a una conveniente e ricca antologia curata
degli stessi Kim e
Sosa (Metaphysics: An Anthology, Blackwell, Londra,
1999), che
contiene una cinquantina di ristampe in versione integrale. L’antologia
migliore però è la
monumentale Analytical Metaphysics curata da M. Tooley
(Routledge,
Londra, 1999). L’opera è in cinque volumi (acquistabili separatamente)
così suddivisi: 1.
Leggi di natura, causalità, e supervenienza; 2. Tempo
e causalità; 3.
Teorie realiste, nominaliste e particolariste delle proprietà; 4. I
particolari e il
problema dell’identità nel tempo; 5. Necessità e possibilità. Peccato
che manchi un
volume o una sezione dedicata alla questione ontologica, che
avrebbe reso
l’opera incomparabile per completezza. Tra gli altri testi antologici
che raccolgono la
ristampa di importanti articoli di ontologia e metafisica analitica,
il volume
Contemporary Readings in the Foundations of Metaphysics
curato da S.
Laurence e C. Macdonald (Blackwell, Oxford, 1998) si distingue
per l’inclusione
di diversi buoni contributi di rassegna dello stato dell’arte nei
principali ambiti
di indagine (impegno ontologico, mondi possibili, proprietà e
universali, tropi,
oggetti materiali, eventi, entità matematiche), mentre Metaphysics:
Contemporary
Readings, a cura di S. Hales (Wadsworth, Belmont,
CA, 1998), si
distingue sia per le ottime sezioni introduttive (scritte da autori
di primo piano)
sia per il taglio originale (vi sono sezioni dedicate a tematiche
non trattate in
questo capitolo quali la teoria delle parti, i particolari dipendenti,
le qualità
secondarie). Da segnalare inoltre Metaphysics: The Big Questions, a
39
cura di P. van
Inwagen e D. W. Zimmerman (Londra, Blackwell, 1998), che raccoglie
54 testi (anche se
non tutti in versione integrale), e Metaphysics: Contemporary
Readings, a cura
di M. J. Loux (Routledge, Londra, 2002), che bene
si affianca al
citato testo introduttivo dello stesso autore. Per avere il polso del
dibattito e delle
tendenze più recenti può anche essere utile consultare i due
volumi della serie
Philosophical Perspectives dedicati alla metafisica (n. 10 del
1996 e n. 15 del
2001, entrambi editi da J. Tomberlin e pubblicati da Blackwell,
Oxford), il doppio
numero speciale della rivista Erkenntnis dedicato alla metafisica
analitica (vol. 48
del 1998, nn. 2-3, a cura di E. Rungalddier e C. Kanzian),
e il volume
Individuals, Essence, and Identity. Themes of Analytic Metaphysics, a
cura di A.
Bottani, M. Carrara, e D. Giaretta (Kluwer, Dordrecht, 2001), che
raccoglie gli atti
di un convegno internazionale tenutosi a Bergamo nel giugno
del 2000 (in effetti,
il primo convegno di metafisica tenutosi in Italia sotto gli
auspici della
Società Italiana di Filosofia Analitica). Infine, per chi volesse una
sintesi schematica
ma puntuale degli sviluppi più recenti si raccomanda la lettura
del compendio di K.
Mulligan su “Métaphysique et ontologie” (nel Précis de
philosophie
analytique curato da P. Engel, Presses Universitaires de France, Parigi,
2000).
Veniamo ai temi
specifici. Cominciando dalla questione ontologica, le letture
obbligate sono “On
Denoting” di B. Russell (Mind, XIV, 1905, pp.
479–493; tr. it.
nel volume La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi,
Bompiani, Milano,
1973) e “On What There Is” di W. V. O. Quine (Review
of Metaphysics,
II, 1948, pp. 21–38; tr. it. nel volume di Quine Il
problema del
significato, Ubaldini, Roma, 1966). Accanto a questi testi si
raccomanda la
lettura del saggio di W. Alston “Ontological Commitments”
(Philosophical
Studies, IX, 1958. pp. 8–17), che bene evidenzia l’arma a doppio
taglio che si
nasconde nel metodo della parafrasi, e dell’articolo di P. Van
Inwagen
“Meta-ontology” (Erkenntnis, XLVIII, 1998, pp. 233–250), che meglio
di ogni altro fa
chiarezza sulla distinzione tra il quesito ontologico «Che
cosa esiste?» e il
quesito metodologico «Che domanda si pone domandando
‘Che cosa
esiste?’?». Sulle parafrasi e la questione ontologica si consiglia inoltre
la lettura del
piccolo gioiello di D. K. Lewis e S. R. Lewis, “Holes” (Australasian
Journal of
Philosophy, XLVIII, 1970, pp. 206–212), scritto in forma di
dialogo tra un
filosofo realista disposto a riconoscere l’esistenza di entità immateriali
(come i buchi in
una fetta di formaggio) e un filosofo nominalistamaterialista
deciso a «farne a
meno». Tra la letteratura secondaria, un testo ormai
classico è
Ontologie und logistische Analyse der Sprache di G. Küng
(Springer-Verlag,
Vienna, 1963; edizione inglese riveduta e ampliata, Reidel,
40
Dordrecht, 1967):
per quanto obsoleto negli obiettivi e circoscritto nei contenuti,
resta ancora uno
studio molto utile sul piano della ricostruzione storica.
Sempre di taglio
storico, ma meno obsoleto e a copertura più ampia, è il libro di
J. Dejnozka, The
Ontology of the Analytic Tradition and Its Origins (Rowman
& Littlefield,
Lanham, Londra, 1996). La lettura di questo volume può essere
integrata con
quella dell’ultimo capitolo della monografia di F. Toccafondi,
L’essere e i suoi
significati (Il Mulino, Bologna, 2000), che ha un taglio ancora
più introduttivo e
che completa il panorama percorrendo anche la storia degli
ultimi decenni.
Infine, sulle questioni più strettamente teoriche attinenti alla
tematica
dell’«impegno ontologico» è disponibile in italiano il volume di M.
Carrara, Impegno
ontologico e criteri d’identità. Un’analisi (CLEUP, Padova,
2001) che si
consiglia anche per il ricco apparato bibliografico, mentre il saggio
di F. D’Agostini
“Metaontologia: Perché l’ontologia analitica” (Aut Aut, giugno
2002) può essere
utile a chi volesse approfondire il nesso tra gli studi di ontologia
in campo analitico
e quelli di impostazione cosiddetta «continentale».
Sulla metafisica
degli oggetti materiali, il testo fondamentale è Individuals
di P. F. Strawson
(Methuen, Londra, 1959; tr. it. Feltrinelli/Bocca, Milano,
1978), che
sostiene la centralità della nozione di oggetto da un punto di vista
di metafisica
descrittiva. Altra lettura obbligatoria è Sameness and Substance
di D. Wiggins, che
difende la concezione tridimensionalista degli oggetti
dagli apparenti
paradossi legati al cambiamento e alla persistenza nel tempo.
Questo libro è
stato estremamente influente e dibattuto negli anni successivi
alla pubblicazione
e nel 2001 ne è uscita una nuova versione, interamente rivista
dall’autore alla
luce di tali sviluppi (Sameness and Substance Renewed, Cambridge
University Press,
Cambridge). Due altri testi fondamentali sono Person
and Object di R.
M. Chisholm (Open Court, La Salle IL, 1976), che contiene la
presentazione
definitiva della concezione sequenzialista degli oggetti materiali,
e Material Beings
di P. van Inwagen (Cornell University Press, Ithaca NY,
1990), da molti
considerato il più importante libro di metafisica degli anni Novanta,
in cui si difende
una variante della concezione di Chisholm secondo la
quale i comuni
oggetti materiali sono semplici artefatti e non hanno esistenza
propria. Per quanto
riguarda invece la concezione quadridimensionalista si
raccomandano The
Ontology of Physical Objects, di M. Heller (Cambridge
University Press,
Cambridge, 1990) e Four-Dimensionalism, di T. Sider (Oxford
University Press,
Oxford, 2001). Molti altri testi dedicati alla metafisica
degli oggetti
materiali e alle loro condizioni di persistenza sono apparsi negli
ultimi anni;
anziché darne il lungo elenco ci limitiamo a segnalare l’antologia di
M. C. Rea,
Material Constitution: A Reader (Rowman & Littlefield, Lanham
41
MD, 1997), che
oltre a raccogliere gli articoli più importanti apparsi sull’argomento
include anche un
ampio capitolo introduttivo comprendente una dettagliata
rassegna della
letteratura. Con particolare riferimento ai problemi
dell’identità nel
tempo si possono inoltre consultare i libri di E. Hirsch The
Concept of
Identity (Oxford University Press, Oxford, 1982) e di D. S. Oderberg
The Metaphysics of
Identity over Time (Londra, Macmillan, 1993), mentre
Parts. A Study in
Ontology, di P. M. Simons (Clarendon Press, Oxford, 1987), è
il principale
testo di riferimento per la mereologia, ovvero la teoria delle parti
e dell’intero. Per
una rassegna della letteratura più recente su questi temi si veda
inoltre “Recent
Work on Identity over Time” di T. Sider (Philosophical Books,
XLI, 2000, pp.
81–89). È bene sottolineare che gran parte di questa letteratura
si aggancia in
maniera indissolubile con quella sull’identità personale, non ultimo
perché diversi
autori si riconoscono nella tesi materialista per cui le persone
sono oggetti
materiali (o perché mirano a prendere le distanze da questa posizione).
Entriamo qui in un
campo dove la letteratura è molto ricca. Limitandoci
ai testi a
carattere introduttivo segnaliamo L’io e i suoi sé di M. Di Francesco
(Cortina, Milano,
1998), Identità e coscienza di D. Sparti (Il Mulino, Bologna,
2000), e la
raccolta curata da A. Bottani e N. Vassallo, Identità personale: Un
dibattito aperto
(Loffredo, Napoli, 2001). Un’altra buona monografia introduttiva
in inglese è
quella di H. Noonan Personal Identity (Routledge, Londra,
1989), mentre chi
volesse cominciare a leggere i testi più significativi non può
che partire dal
libro di D. Parfit, Reasons and Persons (Clarendon Press, Oxford,
1984; tr. it.
Milano, Il Saggiatore, 1989) da molti considerato tuttora il
libro più
importante sull’argomento degli anni recenti. Un altro testo classico, al
quale si è
ispirato lo stesso Parfit, è Problems of the Self di B. Williams (Cambridge
University Press,
Cambridge, 1973). Infine, tra le numerose antologie si
segnalano quelle
curate da J. Perry, Personal Identity (University of California
Press, Berkeley,
1975), da A. Rorty, The Identity of Persons (University of
California Press,
Berkeley, 1976), da D. Kolak e R. Martin, Self and Identity:
Contemporary
Philosophical Issues (Macmillan, New York, 1991), e dallo
stesso H. Noonan,
Personal Identity (Aldershot, Dartmouth, 1993).
Sulle proprietà e
il problema degli universali la letteratura tradizionale è
sterminata e
quella in ambito analitico non è da meno. Per accostarsi alla tematica
può essere
consigliabile partire da un testo introduttivo, per esempio Universals:
An Opinionated
Introduction di D. M. Armstrong (Westview Press,
Boulder CO, 1989).
Come dice il titolo, questo libro non è neutrrale rispetto
alle problematiche
presentate—l’autore difende una forma di realismo scientifico—
ma può comunque
costituire un ottimo punto di partenza. Un altro buon
42
testo a carattere
introduttivo è Universals di J. P. Moreland (McGill-Queens
University Press,
Montreal e Kingston, 2001), sebbene anche in questo caso
vada messo in
conto l’orientamento dichiaratamente platonista dell’autore. In
alternativa,
esistono numerose antologie che consentono di accostarsi al problema
degli universali
partendo direttamente dai testi originali. Per quanto
riguarda i testi
più classici (da Russell fino a Strawson) la raccolta più completa
in lingua italiana
è quella di L. Urbani Ulivi, Gli universali e la formazione dei
concetti (Edizioni
di Comunità, Milano, 1981) mentre in lingua inglese si consigliano
le antologie
curate da M. J. Loux, Universals and Particulars: Readings
in Ontology (Doubleday,
Garden City NY, 1970) e da C. Landesman, The
Problems of
Universals (Basic Books, New York, 1971). Per i testi più recenti
si veda invece il
volumetto Properties, a cura di D. H. Mellor e A. Oliver, (Oxford
University Press,
Oxford, 1997). Per un quadro ancora più completo e
aggiornato si
consiglia inoltre l’ottima rassegna dello stesso Oliver, “The Metaphysics
of Properties”
(Mind, CV, 1996, pp. 1–80). Venendo agli approfondimenti,
la posizione
realista o platonista trova la sua espressione in diversi
testi ormai
classici, tra cui On Universals di N. Wolterstorff (University of
Chicago Press,
Chicago, 1970), Substance and Attribute di M. J. Loux (Dordrecht,
Reidel, 1978), e
soprattutto i due volumi di A Theory of Universals di D.
M. Armstrong
(Cambridge University Press, Cambridge, 1978), forse l’opera
più importante
pubblicata sull’argomento. La posizione nominalista non è
egualmente ben
rappresentata in letteratura. I testi più rilevanti sono “Steps
Towards a
Constructive Nominalism” di N. Goodman e W. V. O. Quine
(Journal of
Symbolic Logic, XII, 1947, pp. 105–122; tr. it. nell’antologia di C.
Cellucci La
filosofia della matematica, Laterza, Bari, 1967), “A World of Individuals”
dello stesso
Goodman (in The Problem of Universals, con M. Bochenski
e A. Church,
University of Notre Dame Press, Notre Dame, 1956, pp.
13–31; tr. it. nel
citato volume di L. Urbani Ulivi), e “Abstract Entities” di W.
Sellars (Review of
Metaphysics, XVI, 1963, pp. 627–671). Ma si tratta di testi
tecnici e molto
specifici, ai quali non corrispondono opere a più ampio respiro.
Forse il miglior
libro sul nominalismo à la Goodman-Quine è ancora Nominalistic
Systems di R. A.
Eberle (Kluwer, Dordrecht, 1970), che però è di lettura
piuttosto
impegnativa (la si può integrare con M. Gosselin, Nominalism and
Contemporary
Nominalism, Kluwer, Dordrecht, 1990, che ha un taglio prevalentemente
espositivo),
mentre per il nominalismo sellersiano ci si deve accontentare
di testi a
carattere compilativo come quello di J. Seibt, Properties as
Processes. A
Synoptic Study of Wilfrid Sellars’ Nominalism (Ridgeview Press,
Atascadero CA,
1990). Chi volesse accostarsi a queste posizioni da una pro43
spettiva un po’
diversa potrebbe anche considerare il libro di J. P. Burgess e G.
A. Rosen, A
Subject with No Object (Oxford, Clarendon Press, 1997): si tratta
di un testo
incentrato sulle prospettive del nominalismo in matematica (volto
cioè a riformulare
il discorso matematico evitando il riferimento ai numeri e ad
altre entità
astratte) ma la portata filosofica del materiale discusso va al di là del
caso particolare.
In questo senso si raccomanda anche la lettura di Parts of
Classes di D. K.
Lewis (Oxford, Blackwell, 1991). Venendo infine alla teoria
particolarista, il
locus classicus è “The Elements of Being” di D. C. Williams
(Review of
Metaphysics, VII, 1953, pp. 3–18 e 71–92), cui peraltro si deve
anche
l’introduzione del termine ‘tropo’, ma una formulazione abbastanza
articolata della
teoria si trova già in G. F. Stout, “Are the Characteristic of
Things Universal
or Particular?” (Proceedings of the Aristotelian Society, Suppl.
Vol. III, 1923,
pp. 114–122). Due altri testi importanti sono quelli di K. Campbell,
Abstract
Particulars (Blackwell, Oxford, 1990), e di J. Bacon, Universals
and Property
Instances (Blackwell, Oxford, 1995), mentre il volume di D. W.
Mertz, Moderate
Realism and Its Logic (Yale University Press, New Haven,
1996), si
distingue per lo sviluppo degli aspetti più tecnici della teoria
particolarista,
soprattutto con
riferimento agli aspetti di analisi logica e semantica.
Vi sono molti
altri temi che contribuiscono a definire il dominio di interesse
della metafisica
analitica e sui quali il dibattito si fa sempre più intenso. Anche
limitandosi alla
letteratura essenziale è difficile fare giustizia a questa varietà e il
lettore è invitato
a consultare le introduzioni generali citate in apertura. A titolo
indicativo ci
limitiamo a segnalare alcune pubblicazioni rappresentative. Sulla
causalità:
l’antologia di E. Sosa e M. Tooley, Causation (Oxford University
Press, Oxford,
1993), il numero speciale del Journal of Philosophy dell’Aprile
2000 (Volume
XCVII, Numero 4) e, in italiano, le monografie di C. Pizzi Eventi
e cause (Giuffrè,
Milano, 1997) e di F. Laudisa Causalità (Carocci, Roma,
1999, spec. cap.
4). Sugli eventi: la monografia di J. Bennett, Events and Their
Names (Carendon
Press, Oxford, 1988) e l’antologia di R. Casati e A. C. Varzi,
Events (Aldershot,
Dartmouth, 1996), di cui è disponibile anche una bibliografia
annotata sulla
letteratura dal 1947 al 1997, Fifty Years of Events (Philosophy
Documentation Center,
Bowling Green OH, 1997). Su libero arbitrio e
determinismo: le
antologie di G. Watson Free Will (Oxford University Press,
Oxford, 1982) e di
R. Kane Free Will (Blackwell, Oxford, 2001) e la monografia
di J. M. Fischer
The Metaphysics of Free Will (Blackwell, Oxford, 1994). Sullo
statuto delle
entità matematiche: oltre al citato testo di Burgess e Rosen, le
monografie di P.
Maddy Realism in Mathematics (Clarendon Press, Oxford,
1990) e di M.
Balaguer Platonism and Anti-Platonism in Mathematics (Oxford
44
University Press,
Oxford, 1998). Sugli oggetti fittizi: le monografie di C. Crittenden,
Unreality (Cornell
University Press, Ithaca NY, 1991) e A. L. Thomasson,
Fiction and
Metaphysics (Cambridge University Press, Cambridge, 1999).
Sulla metafisica
dello spazio e del tempo: l’introduzione di C. Ray, Time,
Space, and
Philosophy (Routledge, Londra, 1991) e l’antologia di R. Le Poidevin
e M. MacBeath, The
Philosophy of Time (Oxford University Press, Oxford,
1993). Sulla
modalità: la vecchia ma tuttora autorevole antologia di M. J. Loux,
The Possible and
the Actual (Cornell University Press, Ithaca NY, 1979), la
monografia di G.
Forbes, The Metaphysics of Modality (Clarendon Press, Oxford,
1985), e il testo
di D. K. Lewis The Plurality of Worlds (Londra, Blackwell,
1986), vero e
proprio manifesto della concezione realista dei «mondi
possibili».
Sull’essenzialismo: il saggio Naming and Necessity di S. A. Kripke
(apparso del 1973
e ristampato come libro dalla Harvard University Press nel
1980; tr. it di M.
Santambrogio: Nome e necessità, Torino, Boringhieri, 1982).
Sull’essenzialismo:
il volume XI dei Midwest Studies in Philosophy edito da P.
A. French, T. E.
Uehling, e H. K. Wettstein (University of Minnesota Press,
Minneapolis,
1986), e la rassegna di M. Della Rocca “Recent Work on Essentialism”
(Philosophical
Books, XXXVII, 1996, pp. 1–13 e 81–89). Infine,
sull’indeterminatezza
ontologica: il libro di T. Parsons, Indeterminate Identity
(Oxford University
Press, Oxford, 2000) e l’articolo di A. Bottani “Oggetti
vaghi e identità
vaghe” (Atti del sesto convegno triennale della Società Italiana
di Logica e
Filosofia delle Scienze, Rubbettino Editore, Cosenza, 2001, pp.
379–391).
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